domenica 14 dicembre 2008

@ SIlver Side

dissociazione culinaria


EPIC METAL

giovedì 27 novembre 2008

il GIOCO dell'ATTESA


CHICAGO 22:57

- Vedi, il jazz è come quando ti cade troppo peperoncino nel sugo il giorno che scopri che ti piace mangiare piccante. Però il giorno dopo quasi sempre ti vengono le emorroidi.
- A me non piace mangiare piccante, e quand’è che iniziano a cantare?
- Ma non senti che voce? Direttamente dalla gola di ottone.
- Non conosco questo cantante, e giuro comunque che non riesco proprio a sentirlo.
Duke sorride e scuote la testa, smette di giocare con lo zippo e tira fuori una sigaretta che stava nuotando nella tasca della sua camicia. Mentre accende inspira forte, adora il retrogusto del petrolio in gola. Bud si alza, prende la sigaretta, fa un tiro e la spegne nel boccale di Duke, vuoto.
- La conosco già la storia dell’atmosfera, del mood un po’ noir, ma non mi va che mi intossichi la stanza, stanotte pensavo di dormire in zona e non ho intenzione di sviluppare un cancro da amicizie tossica.
- Potevi anche dirmelo prima.
- Mi andava un tiro della tua sigaretta.
Duke e Bud passano le serate affogandosi di birra di scarsa qualità travasata nei boccali presi in prestito ai pub della gita delle superiori in Germania; poi un po’ di musica, ed è facile sentire alternarsi cool jazz e death metal. Stasera la playlist tocca a Duke, anche se sono a casa di Bud.
- Bud, a proposito: com’è andata con la metallara del secondo anno?
- Siamo usciti insieme sabato sera; sai, usciti nel senso di baciati. Ha detto che sapevo di vomito…
- Davvero?! Che maleducata…
- Mica tanto, avevo appena partorito dall’esofago una creatura perfettamente equilibrato tra lo stato solido e quello liquido; sfumature violacee, retrogusto leggermente acidulo, da intenditori.
- Quindi anche stavolta niente da fare.
- Che dici? Le è piaciuto tantissimo, siamo stati attaccati tutta la sera!
Ridono di gusto. Mentre riprendono il controllo delle contrazioni facciali Duke si guarda in giro, la stanza di Bud lo affascina: è arredata come se dovesse morire da un momento all’altro. Tende nere, pareti rosse, un mobile di legno tarlato pronto ad inghiottirsi le tre felpe nere e i tre pantaloni neri comprati in serie, una scrivania in cui sembra non siano mai passati fogli, le uniche scritte sul piano da lavoro sono state intagliate con cura nelle lunghe nottate a base di Dimmu Borgir. Quello che gli piace di più però è il disegno di Cristina d’Avena sodomizzata da Haidi con uno strap-on; lo ha disegnato un loro vecchio compagno di classe il giorno prima di buttarsi dal tetto della scuola nel cortile asfaltato. Il problema è che non aveva considerato il fatto che l’edificio era costruito su un solo piano, l’altezza era giusta per farsi abbastanza male, ma troppo poca per uccidersi; l’hanno soprannominato “lo svelto”, a volte vanno a trovarlo a casa, nel letto in cui è immobilizzato da tre anni.
- A cosa pensi? Ti sei ingrigito.
- Pensavo al senso dell’umorismo di Dio. Dì, ma tu ci credi?
- Se c’è mi deve un gatto. Maledizione, devo ancora farla pagare a Dixie, quello skin del cazzo! E pensa che ancora non ho trovato l’altra metà di Artie, povero micino…
- Non ci pensare, è che Dixie non aveva più niente in casa da mangiare. No, davvero: Dio! Senti come suona bene. Se fossi Dio me ne starei tutto il giorno ad ascoltare Chet Baker, e chissenefrega del resto dell’universo. Secondo me in questo momento Dio e il vecchio Chet stanno facendo un duo lentissimo, il Signore ha chiesto un paio di lampade rosse al cugino in basso, per l’atmosfera, se ne sono andati nel versante buio dello spazio e adesso se la godono che tu ed io non ce lo immaginiamo neanche, altro che masturbazione e soffocamento insieme. Sennò come la spieghi le guerre in Medio Oriente?
- Che vuol dire?
- Hai mai provato a guardare i filmati degli scontri a fuoco con “You don’t know what love is” in sottofondo? Da paura…
- Tu sei malato! Scommeto che a guardare rotten ti ecciti.
- Su rotten dot com ci va “Don’t explain”, e dopo come fai a non eccitarti?
Bud non capisce davvero come fa Duke ad ascoltare questa roba. Un paio d’anni prima se ne andavano insieme a vedere i Festering Disgust, e ora lo guarda starsene seduto in poltrona, con le sue camicie leggermente ingiallite, il bicchiere di rosso in mano a sfogliare libri incomprensibili, ascoltando jazz. Oddio, e poi la sua stanza: è arredata come se dovesse morire da un momento all’altro! Di un colore strano, quasi blu, non c’è niente tranne i libri e i vinili, una decina di bottiglie piene e altrettante vuote, il letto e un cassettone poggiato a terra in cui stanno ordinatamente ammucchiati i vestiti. La filosofia di Duke: “se dovessi morire non voglio mica che i miei perdano tempo a svuotare camera mia, pensa come dev’essere tetro stare nella stanza di un morto!” Per fortuna che almeno il gusto del macabro gli è rimasto.

23:23

Bud si strofina un braccio, sembra nervoso; Duke lo guarda con un sorriso un po’ ebete.
- Bud, sei pronto?
- Iniziamo già?
- Beh, non saprei, l’ultima volta hai scritto cinque righe.
- Non mi piaceva il tema.
- Bene, oggi tocca a te sceglierlo.
- Io direi che è il caso di farne uno classico. Che ne dici di “Cosa avrei voluto fare e non ho fatto in tempo?”
- Ci sto!
- Pronto allora? Iniziamo.
- No, aspetta, hai soldi nel cellulare?
- Oh mer…
- Bud! Qua c’è il mio, ok?
- Perfetto. Iniziamo?
- Sei indietro di tre parole…

23:24 BUD

La pagina di Bud, macchiata della sua orrida calligrafia, recita all’incirca così:
“Pochi anni fa era tutto più semplice, sembrava di avere tutto il tempo che volevamo a disposizione, eppure non l’abbiamo mai perso; oggi sembra di vivere per abitudine, per una tradizione culturalmente valida, tipo mangiarsi le ostie o perdere alla lotteria. È strano, ho visto cose che mio padre neanche nei suoi peggiori incubi potrebbe concepire, eppure mi sento già stanco, tediato nell’osservare, straziato dal non sentirmi osservato, impaurito dall’anonimato almeno quanto detesti l’idea di essere qualcuno in un mondo che non mi somiglia affatto. Le menti migliori della mia generazione non si trascinano per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa, all’alba dormono nei loro letti caldi con la fidanzate innamorate accanto, svegliandosi trovano la colazione fatta, i vestiti piegati e uscendo di casa, guardandosi in giro, si convinceranno che non c’è niente da fare se non imitando qualcun’altro. Non sono sicuro poi che le menti migliori siano poi così migliori; ma sto divagando. Con più tempo a disposizione sarei voluto scendere in strada con un kalashnikov. Anzi no, una magnum. Anzi no, una mazza da baseball chiodata, meno vittime, ma molto più vissute. Fracassare teste in ordine casuale, anche se sicuramente avrei trovato il tempo di togliermi un paio di soddisfazioni tra cui: l’ausiliare del traffico, che aspetta lo scatto dell’ora accanto alla mia macchina per vincere il record di multe fatte allo stesso coglione in una settimana – il proprietario della BMW parcheggiata accanto alla mia Panda che saluta gioviale l’ausiliario mentre mi fa la multa, il cui biglietto sul cruscotto è scaduto nel cretaceo – il tossico all’angolo che ha rigato la BMW solo per invidia, perché lui non ha avuto manco le palle per cercare di essere ricco – il fottuto studente universitario che gira in bicicletta giudicando chiunque entri nel suo campo visivo. Dopo il mio piccolo massacro vorrei iniziare a correre e smettere solo in caso di arresto. Della polizia o cardiaco poco importa. Correre, veloce e più lontano possibile, per fuggire da tutte le immagini che mi sono costruito attorno, per non dover più dimostrare nulla a me stesso nè al resto del mondo, correre senza pensare chi sono stato e chi avrei voluto essere. Avrei anche voluto sentire il prossimo CD degli Impaled Nazarene, ma non penso sarebbe stato così diverso dagli altri. Effettivamente mi sarebbe piaciuto anche…”
Bud sente un tonfo, alza lo sguardo.

23:24 DUKE

Sul foglio di Duke le parole sono più o meno queste:
“Sono sempre stato un bambino carino e gentile, non ho mai ucciso animaletti per sfizio e le maestre mi carezzavano amorevolmente quando facevo bene i compiti. Quindi non c’è motivo apparente per cui dovrei odiare il mondo; guarda caso invece il sentimento è proprio questo. Disgusto, per le creature brulicanti che infettano il pianeta senza pietà e rispetto, limitandosi a vicenda. Se non ci fossero tutti questi problemi con la legge avrei fatto volentieri il serial killer, e penso me la sarei cavata piuttosto bene; parlando concretamente, penso che se avessi avuto più tempo a disposizione avrei tentato di innamorarmi davvero. Finora le storie che ho avuto mi hanno procurato più che altro delle fortissime emicranie, penso la sensazione più intensa che abbia provato sia stato quando quell’oca di Sarah, inciampando sul cassettone, mi ha rovesciato addosso la teiera appena tolta dal fuoco. Cazzo, non c’è niente in camera mia, pensavo che il cassettone si vedesse bene, ma a Sarah piaceva guardare in alto, diceva che le evitava la formazione delle rughe sul collo. Tornando al tema principale: innamorarsi dev’essere liberatorio, un po’ come urlare dopo essere stato dal notaio, ma più piacevole, come spezzare le zampe di un gattino, fargli ingoiare a forza un Alcatel One Touch C635 aperto e pubblicare il filmato su una chat per dodicenni, intitolandolo: “BRICIOLA”. È vero che non mi sono mai impegnato, è che sono così giovane e credevo fosse giusto esserlo senza impegnarsi troppo. Già il passaggio dal metal al jazz non è stato semplice, e quasi perdevo il buon Bud; mi chiedo perché le nostre scelte debbano sempre far soffrire qualcuno che si è affezionato alla stereotipata immagine di noi, come se per volersi bene bisognasse firmare un contratto di immobilità reciproca. Forse avrei solo voluto indossare maschere migliori, pensieri leggeri, sorrisi plastici, si dice che a volte simulare l’orgasmo aiuti a raggiungerlo, quindi perché lo stesso principio non dovrebbe poter essere applicato anche al buonumore? Perché finché non raggiungi il tuo obiettivo stai mentendo. E poi chi l’ha detto che dobbiamo essere felici? E poi chi l’ha detto che non dobbiamo mentire? Qualcuno deve avercelo insegnato, ma penso fosse una bugia…”
La penna in mano a Duke cade, prima sul foglio, poi rotola a terra, e Duke la segue.

23:32

- Hey Duke! Allora stavolta ho vinto... per fortuna, credevo di non farcela più. Aspetta che chiamo. Ecco… sta squillando… non ti preoccupare, tu stai lì buono che al resto penso io… cerca di non sporcare per terra, mia madre ci ha messo una settimana a mandare via le macchie l’ultima volta… SI! Ciao, buonasera, sei Shirley? No, ELLA! Ciao Lady, sono Bud, ti ricordi di me? Era tanto che non ci sentivamo. E dai non iniziare con il solito “ancora, ma perchè, eccetera…” lo sai che ci piace, ci potete dare mille farmaci, non li prendiamo, io ho degli amici tossici che vanno pazzi per le benzodiazepine, uno mi ha pure regalato il suo abbonamento annuale a Topolino; che vuoi, ha 13 anni, se non inizi presto poi vedi i tuoi compagni strafatti e sei fuori dal gruppo. Seee, non è mica così semplice, ci dovete trovare. Che dici tu? Casa mia a La Grange o casa di Duke a Northbrook? Dovete indovinare, conta che è già passata quasi un’ora e anch’io non mi sento particolarmente in forma. Chi ce lo fa fare? Nessuno, e tu non sei costretta a stare a sentirci, puoi riattaccare se vuoi, io chiamo perché mi piace ascoltare la tua voce; mi piace immaginarti con il camice bianco, adesso stravolta per noi due poveri imbecilli, ma tanto domani ti sarai già dimenticata, tornando a casa dal tuo bel marito comprerai il dessert per ingozzarvi dopocena insieme ai bambini. Già, come stanno? Bene, no… con due genitori come voi, che gli manca? Da una parte vi invidio, dall’altra vi odio, insomma non è che proprio mi piacciate, però vi ammiro anche, io non ce la farei. È perché sono viziato, forse perché sono deluso, forse perché nell’ascoltarti mi sento un po’ un amante segreto che ti confida il suo più intimo, forse ultimo, barlume di presente. Beh, adesso devo proprio andare, buon divertimento, comunque vada…”
Bud non attacca, non ne ha la forza, si accascia sul letto ascoltando l’eco delle ambulanze in partenza filtrate dalla linea telefonica, e poi la voce di Ella che continua a chiamarlo, ma è come se dicesse Everytime we say goodbye, I die a little / Everytime we say goodbye, I wonder why a little / Why the Gods above me, who must be in the know / Think so little of me, they allow you to go.

22:46

- Hey Duke, ma quanto ci metti con quella lametta?

giovedì 20 novembre 2008

OPS... si muore

Oggi è morto un commerciante di prosciutti e salumi vari, i parenti affranti ne annunciano la triste scomparsa; i suini salutano con un certo senso di sollievo. Potrei dirvi che questa persona è stata molto importante per la mia vita e la mia crescita umana e lavorativa, ne conserverò un intenso ricordo. E basta. Fin qui non ho espresso pareri positivi riguardo al defunto, e se la mia etica me lo permette, non lo farò: è morto un triviale fascista schiavo del denaro, questo si, però era un uomo sorridente. Se avesse potuto avrebbe venduto anche il sorriso, e forse l’ha fatto. Ci lascia oggi un uomo che ha dedicato la sua vita al lavoro e allo stereotipo degli ideali che andavano così di moda durante il ventennio; dire che solo i migliori se ne vanno in questo momento mi sembra fuori luogo. Mi chiedo se in qualche modo dovrei sentirmi in colpa per queste parole, mettendo in chiaro che non voglio mancare di rispetto a uno che non può più controbattere; con lui sono stato abbastanza falso da essere quasi sincero, e se l’ho ascoltato a lungo è perché avevo qualcosa da imparare. Facendo il contrario. Ma aimè, d’affetto non è il caso di parlarne, anche se è il nonno di uno dei miei amici. Fascista, pure lui, ma con più stile e freddezza. Ricordo la prima volta che vidi una persona morta: ero piccolo, abbastanza da non sapere quanti anni avessi, ma ero piccolo, dalla qualità del ricordo direi che è uno dei più vecchi che ho. La protagonista era un’anziana amica di famiglia, una di queste donnone che stanno in campagna ma che poi non devono aver vangato molto in vita loro; quando andavo a trovarla con i miei genitori era molto gentile, e mi lasciava sempre l’ultimo wafer. Dopo essersi mangiata gli altri. Perlopiù credo di aver intrattenuto un rapporto di merenda con lei, ma per un bambino che ha fame è già molto. Il giorno che morì i miei vollero che assistessi al funerale; non ricordo se al tempo mi ero già posto il problema della morte, di sicuro la questione non tardò a prendere forma. Penso che sia stato il funerale più bello a cui sono stato, l’unico visto dentro la casa, e non solo la cassa, del morto. Devo dire una cosa: non sembrava affatto che dormisse, e le ragioni sono molteplici. Innanzitutto sarei stato molto imbarazzato a fissare una persona che dorme, invece mentre ero là capii che a quella signora non davo affatto fastidio mentre la guardavo. Secondo, chi di voi ha mai dormito in una cassa leggermente foderata con un velo di tulle sopra? Non molti, direi che come minimo porta sfiga. Terzo, la gente non si riunisce per vedere qualcuno che dorme, e anche se lo facessero non ci andrebbero con quelle facce lunghe e grigie. Quarto, non c’era il tè, non mi stava offrendo l’ultimo wafer, e non aveva l’aria di aver voglia di alzarsi per prenderlo. Infine la luce. Non quella di cui l’anima della defunta era probabilmente invasa, ma quella che illuminava la sua salma e tutta la stanza intorno; è stato il momento più sepia della mia vita, era pomeriggio eppure dalle finestre passava solo uno spiraglio di luce tenue. O forse erano le candele, non saprei dirlo, il fatto è che la stanza era molto polverosa, quasi come se il corpo per anticipare le tappe volesse essere cenere prima del previsto, e così l’aria era satura di questo pulviscolo sospeso, quel velo che adesso aggiunge la grana necessaria nella memoria ingiallita. Quella è stata la mia prima morte, e tante ne sono seguite. Tra le più importanti il padre di una mia vicina di casa, il che lo rendeva un mio vicino di casa, una figura che ero abituato a vedere in giro. Lui però non l’ho più visto, neanche a simulare male il sonno. È stato importante perché gli volevo bene, anche solo per abitudine, ma gli volevo bene, e per la prima volta scrissi i miei pensieri su una morte che oltre ad essere reale mi era vicina. Un altro trapasso importante è stato quello del mio cane, Olmo, un momento disturbato dal pianto di mia mamma, che nonostante fossi già grande, non capii. A lei non era mai stato simpatico, ci aveva parlato si e no un paio di volte e per dirgli di fare una passeggiata da solo, mai una carezza, e ora tutta questa disperazione? Da quel momento però compresi che la morte non può che essere femmina, infatti non la capisco. Come non capisco le lacrime: non ho mai pianto per un morto, se escludiamo una lacrima per una ragazza che era praticamente sconosciuta, ma lei fa parte di un particolare caso in un particolare momento della mia vita. Forse il coinvolgimento è sempre stato troppo parziale, forse il clima non mi ha mai stimolato, ma ai funerali la gente mi sembra un po’ meno intelligente, un po’ più omologata, alla faccia di “ognuno reagisce in modo diverso di fronte a questo grande mistero”. È vero però che non ho mai saputo cosa dire, e ora invece ho voglia di scrivere, ma se dovessi trovarmi di fronte ai parenti del neomorto sfodererei il mio sorriso mesto circostanziale e me ne starei in silenzio, pronunciando forse a bassa voce il nome del mio interlocutore, come a voler dire: “capita”. Troppo cinico? No dai; prendiamo mia nonna. Mia nonna ha avuto un ictus o una cosa del genere tanti anni fa, talmente tanti che non la ricordo senza, quindi per me la mamma di mia mamma era una donna che si muoveva lentamente, parlava lentamente e a volte si dimenticava il mio nome, ma faceva una gran pastalforno. Fino al giorno in cui ha smesso di farla. Poi ha smesso di camminare, poi di parlare, secondo me era perché si era dimenticata tutti i nomi e non voleva fare brutta figura. Poi sembrava che volesse smettere di vivere, ma non ci credeva fino in fondo, e così l’hanno portata all’ospedale. In quel periodo all’ospedale ci avevo messo le tende per una fidanzata un po’ rotta, così pensai: “ma guarda che coincidenza”. Già; c’era anche mia mamma, lei si, un po’ piangeva, però mia mamma è una tosta, lo sa che a volte capita, e ne capisce a fondo tutte le implicazioni. In quel periodo mia nonna dimagrì molto, aveva pure smesso di mangiare, le sostanze nutritive gliele mescolavano al sangue, un cocktail energetico che secondo me non doveva essere così buono. E poi morì, e se dovessi dire che ricordo il funerale affermerei il falso, e chi racconta bugie va all’inferno. Più o meno. Ricordo il funerale della nonna della mia vicina, quello si, mi sembrava la famiglia più sfortunata di sempre. E poi l’ultima immagine della mia falsa zia Anna, falsa perché era la zia di mamma, ma falsa anche perché era una di quelle abituata a mentire, invidiare, ostentare, anche quando masticava a bocca aperta. Per immaginarvela potete pensare alla “mamma” dei robot in Futurama, la pettinatura era quella. Ricordo la notizia dell’incidente fatale avvenuto alla madre di un ragazzo che sta ancora facendo la chemioterapia, e anche lui mi è sembrato il ragazzo più sfortunato del mondo, ma non lo conoscevo, e non lo conosco abbastanza. Pensate alla morte? Fatevi un giro nei cimiteri, è rilassante, e le lapidi sono magnifiche, mentre i fiori finti si potrebbero anche evitare, sembrano la stupida pretesa che qualcosa duri in eterno senza usurarsi, il desiderio frustrato di un’impossibile immortalità. Quindi torno al punto di partenza, perché in fondo parliamo sempre di una partenza, no? E se l’arrivo ci sfugge forse è meglio così, e se non sappiamo cosa dire ai funerali forse è meglio così, e se il giorno in cui qualcuno muore piove o c’è il sole sarà comunque meglio così, perché forse non poteva andare altrimenti. Perché si muore, e se moriamo felici forse è meglio così, ma se viviamo felici, non sempre, ma abbastanza per essere vivi, forse è ancora meglio.

venerdì 14 novembre 2008

PROFONDO DISGUSTO e una METAMORFOSI



È solo un corpo morto, un pezzo di carne che ha iniziato il suo processo di decomposizione, che scopo ha cercare di purificarlo? Non saprei, è che ormai mi sono affezionato, dopo tutto questo tempo. L’ho trovato per caso un giorno, nei miei pellegrinaggi, quando ancora non sapevo che si muore soli, era adagiato sulla poltroncina di un teatro, e non diceva niente. Non esprimeva né rabbia né commozione, non veniva voglia di toccarlo, tantomeno di spostarlo; non puzzava ancora, ma si capiva che era morto da un bel po’. Così l’ho preso con me, ho deciso di portarlo qua, a casa mia, posizionandolo come potevo su di un tavolo, in attesa di sapere dove metterlo. È il corpo di un superbo, la cui unica capacità era quella di sentirsi il solo a meritare di vivere il presente, preso dall’immagine che si era creato di se e che cercava di proporre agli altri. Mi sembra di sentirlo, pomposo, che si bea di argomenti di cui non sa nulla usando parole di cui a malapena conosce la corretta pronuncia: “il senso di trascendenza implicito al gesto mi a portato al culmine della gamma cromatica sensibile” per dire che era stato al bagno e ci aveva passato una mezz’ora della sua vita, che di tempo ne ha sempre avuto troppo, finché non ne ha avuto più.
Oggi mi sento inspirato, sarà che a vederlo così mi è venuta voglia di aiutarlo ad essere migliore. Nella cassetta degli attrezzi che ho preso in garage trovo un martello e una scatola di chiodi, di quelli grossi, per quadri importanti, per novelli Gesù da mutilare con cura, per appendere le immagini di se ingigantite fino a rivelare ogni insignificante particolare; ho il martello in mano e una sensazione di potere addosso, sorrido consapevole di avere tutto per me il cadavere che ho sempre sognato. La luce gialla illumina la stanza, il computer acceso emette un ronzio fastidioso che si mischia senza amalgamarsi al fischio continuo che mi urla nelle orecchie da due anni a questa parte, ed ora è come un vecchio amico che ti si è piazzato in casa e non vuole più andarsene; che caro, è così affettuoso! Mi metto le cuffie, due dischi volanti bianchi che costano di più perché ti emettono nel cervello meno schifezze elettroniche, come se davvero volessi fare il professionista o vivere così a lungo da poter raccontare di aver fallito. La musica è leggera, si addice alla prima notte di luna calante, si festeggia un evento importante: il ritorno del buio e la stigmatizzazione di un bastardo. Ingoio ad occhi chiusi una manciata di cereali secchi tipo corn flakes, però più buoni, e vibro il primo colpo.
Forte e obliquo sui piedi, sovrapposti per l’occasione. Dalle ferite esce un liquame rosso solo all’apparenza, sono piccoli grumi che schiumano via dalla pianta e macchiano il legno del tavolo. Questo è per non aver fatto più un passo, per essere rimasto immobile a fissare il mondo che ha continuato a girare; la tua superbia avrebbe voluto che si fermasse in contemplazione della tua morte, e invece è stato così dinamico da dimenticarti, rimpiazzarti con elementi più funzionali, come in una fabbrica lasciata in mano al socialismo. Il giorno in cui sei morto eri in una piazza, era notte e non c’era nessuno, solo il vento che sussurrava una verità relativa, ti spingeva a cambiare e tu non l’ascoltavi; non te ne sei neanche accorto che la vita scivolava via, troppo preso nel cercare di guardarti in terza persona per vedere se riuscivi lo stesso a piacerti. Quel giorno eri forte, come non potevi esserlo? Lo eri stato fino a quel giorno, una vita passata ad accrescere il proprio personaggio, a recitare una parte fine, dedicata a coloro che non hanno la dote di saper dire le bugie. E poi eri stato al mare da poco, e anche il sole ti baciava, e a volte basta così poco per sentirsi amati. Ma non ti accorgesti di essere da solo, e non capisti che lo saresti stato per il resto dei tuoi giorni, scivolato nel letargico, finale torpore.
Contemplo l’inizio dell’opera e devo dire che se mi impegno a volte riesco a creare anche qualcosa di interessante, tutto sta nell’applicarsi con dedizione, con trasporto. Un velo di sudore mi appanna gli occhiali mentre cerco qualcosa nella cassetta, devo trovare lo strumento giusto per il prossimo lavoretto, e sono così concitato da accorgermi solo dopo un paio di minuti che ce l’ho già in mano: il martello! Splendido, in due pezzi, manico di legno e testa di una lega arrugginita ma che picchia ancora duro. Sui ginocchi in frantumi. Mentre vibro i colpi sento le ossa piegarsi e spezzarsi, la rotula in frammenti fuoriesce dalla carne spappolata mentre le gambe si piegano in dentro, ridicole e scomposte, come se fossi atterrato su di loro dopo esserti buttato dal balcone di un quinto piano. Forse avresti dovuto. La seconda volta che sei morto eri proprio su quel balcone che aspettava di vederti saltare, e invece niente, perché ancora non sapevi d’essere morto, anche se c’era già qualcosa che puzzava. Era di nuovo notte, una notte d’estate non bella ma abbastanza calda da far pensare che il buio e il freddo siano entità distinte tra loro; illuso, ti saresti ricreduto presto. Un gatto grigio ti osservava in silenzio, battendo la coda prima a sinistra, poi a destra, poi di nuovo a sinistra e così via, quasi a voler scandire il tempo che ti stava sfuggendo di mano. Quella sera pensavi che tutto sarebbe andato al posto giusto, come la prima volta che scarti un puzzle e vedi la figura in copertina senza la minima consapevolezza di tutti i pezzi che la compongono; non pensavi neanche di voler giocare, eppure qualcuno aveva già iniziato a mettere i tasselli in ordine, e anche se gli incastri a volte non sembrano giusti è solo perchè hai perso di vista il quadro completo.
Sembra che il prossimo passo sia obbligatorio nel moto d’ascesa di rivisitazione del corpo umano, e chi di voi ha giocato al dottore da bambino, o all’allegro chirurgo da grande, sa di cosa parlo. Le mani frugano nella cassetta, ma vanno a colpo sicuro e si stringono sulle cesoie, grandi e affilate da poco; sembra quasi uno spreco avere uno strumento così imponente per uno strumento così piccolo. Dà molta meno soddisfazione del previsto recidere via con un taglio unico il sesso molle del corpo inerme. Quello che cola dalla ferita aperta sembrano residui di epitalamo, ma dev’essere la poca luce, o la suggestione di aver sempre visto le persone ragionare con i genitali. Chissà, a nascere col potere come ci si sente, essere maschio a volte lascia un po’ interdetti, soprattutto il terzo giorno in cui muori; te lo ricordi il tuo, stupido corpo mutilato? Certo, anche quella volta eri in piazza, non erano passati che pochi giorni dall’ultima morte, ma in quel momento era pomeriggio e c’erano tante persone, e tu ti sei sentito come loro, un pezzo di folla, un illusione proiettata sullo sfondo; e ancora niente, non ti eri accorto che la vita da esserti scivolata accanto stavolta ti era proprio passata sopra ed eri stato schiacciato, da quel giorno ciò che oggi ti ho reciso sarebbe stato completamente inutile se non per compiacere la tua solitudine, e così sia, ma mi fa pena vederti in mezzo a quelle persone e scoprire che anche il sole aveva smesso di baciarti, seduto inerme e silenzioso all’ombra alta di un campanile che non aspettava altro che suonare la tua ora, ma la tua superbia non ti permetteva ascoltare. Eri in ritardo all’appuntamento con il tuo decesso, e non si può far aspettare troppo la morte.
L’ultimo gesto mi ha fatto sentire un po’ a disagio, va bene che devo dissacrare un corpo per creargli un nuovo valore, ma a volte mi lascio un po’ prendere la mano ed esagero con i miei sprazzi artistici. Guardo il corpo che non mi restituisce lo sguardo, anche questo sintomo dell’antica importanza che il cadavere si dava. Il prossimo oggetto è semplice quanto essenziale, non sta nella cassetta degli attrezzi, ma sospeso sul corpo disteso; non mi torna in mente di preciso quando o perché mi sono fatto montare in camera un oggetto simile, ma a quanto pare ogni cosa si rivela utile a tempo debito. Niente bisturi, niente anestesia. Il gancio sprofonda nella stomaco, centimetri di elastici ventricoli ammassati l’uno sull’altro, vuoti e inutili a tal punto che mi ricordano qualcuno. Quando sento di aver beccato una delle viscere più resistenti tolgo la mano dallo stomaco e tiro la catena, appendendomi con entrambe le braccia con una foga tale da perdere l’equilibrio, finendo per terra. Quando mi rialzo lo spettacolo è di una grazia tale da costringermi a scattare qualche foto allo stomaco nudo appeso in alto, ancora legato ma così leggero da essere sospeso, accompagnato da una stretta d’acciaio. Se tu avessi potuto sentire ancora la sensazione non sarebbe stata tanto diverso da quella che ti prese in un giorno di mare, circa un mese dopo l’ultimo decesso. Il quarto decesso avvenne di nuovo un giorno che il sole sembrava volerti abbracciare, eppure avevi freddo. Eri in spiaggia e stavi camminando, osservavi i bambini troppo grassi giocare con bambine che sarebbero diventate o troppo facili o troppo fragili. Non c’era niente che non andasse, è che assomigliava tutto a una pubblicità, a un reality girato così male da far vedere il trucco, da sfilacciare il velo di Maya, che si apriva per la prima volta su di te, scoprendoti morto. Una lacrima e poi un’altra, non poteva essere, non tu, così giovane e bello, così forte e coraggioso, così superbo che neanche l’oscura signora avrebbe potuto toccarti senza chiedere il permesso. Era già successo per tre volte, ma ora finalmente percepivi il profondo significato del decesso, una morsa gelida a quello stomaco che non hai più dentro di te; anche al tempo ben poco c’era rimasto, ma non fu la dieta, ma la consapevolezza quella che ti fece più male. Se ti può consolare nessuno notò il pianto, solo la sabbia, ma si asciugò presto, e anche il dolore si rivelò, somigliandoti, nella sua essenza: superfluo.
Se la vita delle persone fosse sempre in diretta, conciato così faresti uno share altissimo, almeno per qualche secondo, poi saresti già scontato; ma che ci vuoi fare, panta rei, gi attori, gli amori, le prime e le seconde serate, i fine settimana, le estati, i momenti brutti. Non il tuo però, il tuo iniziò quel giorno. Ma ora vediamo, come fare per tenere alta l’attenzione? Il rituale sta diventando noioso, ci vuole il gesto simbolico, il catalizzatore. Ho quello che ci vuole! Peccato, se tu fossi stato un vampiro ti avrei dato la pace, ma questo picchetto pigiato a spregio nel cuore, di cui spunta solo la capocchia piatta, ti fa sembrare più che altro la pulsantiera di un gioco a premi in cui è in palio la tua dignità di cadavere, e non c’è dubbio: tu hai perso! Colpire il cuore, così vicino ai polmoni da farmi pensare di aver traforato anche uno di loro, per me non sarebbe un problema, sono asmatico; questo muscolo carico di significati secondi che ti galleggia nel petto incassato non batte più, e la sua immobilità è così totale da farci chiedere se ha mai battuto davvero, offrendoti quei pochi istanti di vita necessari se si vuole morire con decenza, una, due, tre, quattro, cinque volte. Un bosco, di mattina stavolta; anche quel giorno apristi il cuore senza trovarci niente dentro, e gli alberi ti ascoltarono mentre confessavi di aver avuto qualcosa la dentro, una volta forse, sbiadita e confusa in mezzo alle costole, ma c’era. Il sentimento più forte quel giorno la facesti provare a una famiglia di cornacchie che ti videro passare, sconsolato e inconsolabile ora che sapevi la verità sul tuo decesso ormai passato e ripetuto in loop fino alla saturazione; gli uccelli ti guardarono a lungo prima di iniziare a gracchiare, e anche se non potevi tradurre con esattezza ti inchinasti alla fragorosa risata che stavi provocando.
Sono un po’ stanco e mi mancano le forze, stamani mi sono dimenticato di fare colazione e ieri notte di dormire. Però mi sento euforico, quest’attività mi da una certa soddisfazione pragmatica, un accanimento terapeutico approvato dal carnefice e ignorato dalla vittima, un po’ come nella realtà. Bisogna togliersi delle soddisfazioni finché si è in uno stato diverso da quello del mio ospite; certo se mi fosse capitato di incontrare il corpo di una ventenne avrei tentato forse anche qualche altra sperimentazione, ma che vuoi farci, non ci si può mica lamentare della provvidenza, anche se agisce per caso. È il momento del filo spinato, lo scopo è simulare una preghiera. Hai fatto in tempo a congiungere le mani e chiedere qualcosa a Dio? Se così non fosse cercheremo di rimediare presto, tu intanto pensa al desiderio che più vuoi veder frustrato, la realizzazione non sta in cielo o in terra, sta dentro di te fin quando riesci a tenere gli organi in attività. Ecco fatto, una passata di filo e abbiamo ottenuto un fedele silenzioso che eventualmente avrà dei problemi a genuflettersi. Nel vederti simulare la preghiera mi sembra di riconoscere le giornate in cui hai continuato con i tuoi decessi a catena, moto perpetuo di cui hai supplicato la fine, e quando hai visto che non sarebbe arrivata hai chiesto il massimo dolore possibile, per tutti. Ma se nessuno ti ascoltava da vivo pretendi che qualcuno senta la tue parole adesso? Pensi di essere più vicino a Dio? Ti sbagli alla grande, sei nell’abisso più scuro, e quando credi di aver già raschiato abbastanza il fondo ti si apre il livello successivo, e precipiti. Stupido cadavere che con le giornate si è fatto sempre più quieto e immobile, fino ad oggi.
Per l’ultima rifinitura sono di nuovo i chiodi a voler essere protagonisti, ma stavolta non ho bisogno del martello. Sto ascoltando “the Better Things to Come” di Lycia, un’eterea pagana che ha scelto di comporre in minore per le foreste e gli spiriti, per le cascate e l’orizzonte che comunque vada non potrai più vedere, con due chiodi conficcati nel bulbo oculare. Questo è l’epilogo giusto, il colpo di classe con due lunghe antenne da chiocciolina, che ti rendono meno cieco di quando potevi osservare e insistevi nel distogliere lo sguardo, proporti le tue versioni soggettive ed errate perché la verità esiste solo per chi la cerca e a te è sempre piaciuto mentirti. Come quel giorno a teatro, quando ci siamo incontrati. Eri andato per avere delle risposte e hai trovato nuove domande che mettevano in discussione il tuo personaggio, il tuo ruolo nella commedia sociale. Volevi che fosse il giorno per morire un’ultima volta, definitivamente, e rinascere pacificato. Non è accaduto, ma se prima eri solo a inquisirti da quel momento ogni ricordo della tua esistenza ti ha preso a schiaffi, cercando di svegliarti per svelare che c’è qualcosa di più interessante che continuare a morire, ci sono cose per cui forse, e forse è solo un modo di dire sicuramente, vale la pena Vivere. Così ti ho preso con me per cercare di finirti, ma anche adesso sento che vorresti liberarti per tornare a soffrire in pace, soluzione semplice per chi non sa combattere.
Mi piacerebbe saper fumare, adesso una sigaretta ci starebbe proprio bene, come con il caffè e il sesso, ma chi lo sa, non ho mai provato… ma c’è comunque qualcosa che non va, tu respiri ancora ed io invece sono sempre più stanco, mi si piegano le ginocchia, mi fa male la pancia e non ci vedo molto bene. La superbia non ti permette di morire una volta per tutte, ma stanotte sarò la cura al tuo male. E spiro. E ti porto via con me.

Adesso sei libero.
Credici.

sabato 8 novembre 2008

A DISAGIO


Velenoso, ma non come il cianuro, più come un cartone di latte dimenticato in spiaggia le prime due settimane di Agosto; in realtà sarei buono e dolce, il problema è che, a forza di passare, il tempo mi rende acido; finisco per mettere in circolo il mio stesso veleno, ma devo ammettere che la cosa che mi da più fastidio è vedere che sono l’unica vittima. Povero me, volevo uccidere qualcuno e adesso sono così dissociato da voler fare a pezzi l’abietta creatura che abita nello specchio: quella persona sorride e mi mostra i denti ringhia sbava ulula alla luna il suo fallimento, la sconfitta in una gara che giocava da solo. Vorrei strappargli la pelle, mettere a nudo quella carne che opprime, costringe a pensare alla instabile materia quando invece avrei mezzi per superarla. Non è vero, nessuno ce li ha, ma di solito sono piuttosto bravo a non essermi sincero. Come adesso, che insisto nel colpevolizzarmi; chi prendo in giro? Ho troppa stima di me per sentirmi responsabile, sono solo molto stanco e non voglio neanche tentare di star bene, richiede un impegno che non ho intenzione di dedicare a quell’evanescente scoria che mi brucia dentro, l’emotività latente. Conosco persone che ci convivono, poeti che ne parlano, musicisti che la raccontano, ma la mancanza di talento mi obbliga ad amplificare il malessere senza poterlo imprigionare in queste poche righe che domani il mio buonismo vorrà cancellare, e pensare che non sono neanche sbronzo. Ho attraversato la nebbia come un coltello, e guardandomi allo specchio somiglio a un mattino d’inverno, con i primi raggi dell’alba che sciolgono cristalli rappresi sugli arbusti più leggeri. Che immagine di merda. E che rabbia, per il mio profondo senso di centrifuga voglia di vomitare la tensione del ventiduenne frustrato. Ma chi l’ha detto che bisogna star bene? Chi ha detto che bisogna cercare la pace? Perché cerco di salvare il mondo se ne detesto il contenuto? Odio, non solo ma soprattutto me stesso, perché mi ero promesso un briciolo di autoironia in più, non vorrei prendermi sul serio, in fondo è solo una vita, una mucchio di esperienze perlopiù vane o al massimo autogratificanti; eppure non ci riesco. Sono le immagini, sono i ricordi, sono i miei schemi i valori i sogni le schegge per raccontare quello che avrei voluto essere adesso. Diverso. Sono le cinque e giuro non riesco a capire come ci sono arrivato, sette ore fa sono stato a disagio, e devo dire che adesso non mi sento molto meglio. Non rimpiango la felicità che non ho più, voglio solo che nessuno possa raggiungerla. Avete presente la storia del pendolo tra gioia e dolore, no? Beh, il mio offre dei brividi vertiginosi sul versante positivo; il problema è che durano meno di un respiro, ma poco importa se solo io posso averli, meglio di niente. Sono generoso, vi darò un indizio: la nebbia la mattina presto, le luci gialle della città notturna specchiate nel cielo nuvoloso, alcune canzoni sintetiche, il respiro di uno sconosciuto sul collo, una discesa veloce urlata senza mani, immergersi nel buio. Sono solo attimi, ma se non li avete notati forse avete perso qualcosa; comunque non sciupateli, sono un regalo prezioso, un motivo per sopravvivere a volte. Dio sa che lo ringrazio, sa che non vanificherò l’unica esistenza che ho, ma smette di essere divertente se non ci sono livelli da affrontare; il mio problema: sono bloccato a un boss, uno di quelli tenaci, non posso applicare una strategia valida che subito vengo sgamato e la barra dell’energia decresce. Ad ogni modo ce l’avessi davvero un piano non starei qui. Intrappolato, avvelenato, a disagio. Stanco del teatro dell’assurdo che mi recita in testa il dramma senza copione meno divertente e anche meno drammatico di sempre, stanco dei sorrisi che mi macchiano le labbra, stanco di ricordarmi chi sono, ogni giorno al risveglio. Prestatemi un sogno, devo andare a letto e li ho finiti.

cartoline dal mondo dei coniglietti [rosa e tagliati fini]



lunedì 20 ottobre 2008

H A i K U

immerso tra le
superfici osservo
il paradosso

il kigo è: estate di merda mascherata da autunno vuoi finirla di ammorbarmi e far partire la stagione dell'amore e della/e persone che farò a pezzi piccoli piccoli piccoli?? o_dio

martedì 7 ottobre 2008

180 SECONDI DI EIACULAZIONE

tratto da ‘la Gazzetta del Vuoto’
direct streaming da Copenhagen
20 Dicembre 2012

23:57 – mancano tre minuti a mezzanotte quando il cervello di Grazia Mansi, 8 anni, smette di poter pensare e si disperde sulla folla accalcata. Ad ucciderla è il colpo di una Walther P99 sparato a distanza ravvicinata, un proiettile che si infiltra ad alta velocità nel cranio passando dalla fronte, frammentando le ossa e trapassando il cervello. Fino a un attimo prima la bambina stava in braccio al padre e sorrideva a Charlie T.Brand, il suo assassino. Charlie pensa che il mondo sia un illusione e essendo la fine imminente sia giusto fare un esperimento sociale: come reagisce la gente condannata ad una morte solo di poco prematura. Ha deciso di essere metodico, colpendo casualmente ma cercando di eliminare soggetti diversi tra loro per apparenze e reazioni. In questo momento sta ascoltando ‘Split in Half’ dei Disparaged, in onda su DeathFM. Il padre di Grazia sta urlando, ma a quanto pare per Charlie non merita una fine analoga a quella della figlia, preferisce aspettare e osservare le conseguenze del gesto e le soluzioni repentine che saranno prese; l’uomo smette di urlare e si immobilizza, allucinato, mentre il resto della piazza emette un gemito di paura. Charlie si guarda attorno mentre la folla tenta inutilmente di disperdersi ad appena dieci secondi di tempo trascorsi dallo sparo; contrariamente alle aspettative il panico dilaga in fretta, ed essendo le persone molto strette tra loro qualcuno e costretto a sottostare ai passi di coloro che, trovandosi troppo vicini a Charlie, sono statisticamente più a rischio e cercano quindi di fuggire con maggior foga. Ma il nostro ragazzo ha un asso nella manica, una carta a frammentazione M67 da giocare il più lontano possibile; vola in alto e poi scende, silenziosa come una stella cadente spenta, va a colpire la spalla di Luca Gomeraso, a una ventina di metri di distanza. Il primo secondo si pensa a un ciottolo, poi l’espressione terrorizzata della quarantenne Marialuna LoVerso fa capire alle persone vicine il pericolo che incombe. È tardi: tredici vittime, cinque morti, tra cui le due ultime persone citate, e otto feriti, di cui 3 molto gravi e uno soltanto leggermente graffiato. Ma la cronaca in diretta non si occupa di chi soffre parzialmente, a noi piace il sangue abbondante, respirarne l’odore fin quassù, nel cielo, nel nostro elicottero offerto in dotazione dall’esercito nazionale dell’impero alla FOX, “solo cronaca scelta ed eventualmente provocata”. Ma torniamo ad occuparci di Charlie, questo ragazzo semplice e sensibile a cui, in un giorno dei suoi 19 anni, venne ucciso per sbaglio il cane; è questo evento che, nella biografia ufficiale pubblicata da Mondadori, appare determinante per lo sviluppo di una complessa e complessata personalità. Passano in secondo piano la lebbra che colpì la madre quando lui aveva solo sette anni, o le costanti delusioni amorose dell’adolescenza, quando era leggermente sovrappeso e le ragazze lo chiamavano Charlie Big Potato. Sua sorella venne divorata durante la lunga carestia dell’Inverno 2011, in cui persero la vita appena un migliaio di persone, buone per fare le conserve e uno special televisivo da mandare in onda il fine settimana, ma poco più. Charlie nasce nel 1984 e vent’anni dopo, causa cane, desidera morire, prova a suicidarsi ma non riesce, non è mai stato un tipo coraggioso. Finita la scuola superiore non ha voglia di continuare a dedicarsi allo studio e inizia a viaggiare con i soldi che ha risparmiato: per cinque anni ha chiesto denaro al padre alcolizzato per uscire a mangiare il sabato sera, ma non avendo amici li ha messi da parte, passando le serate a fingersi morto seduto su un ponte. Charlie viaggia per scappare da se stesso, vede buona parte dell’Europa e qualche frammento d’Asia, ma non trova mai una patria che lo accolga, i sorrisi degli altri gli sono preclusi da quel velo di malinconia che accompagna il nostro eroe deluso dal mondo. Non realizza molto, trova lavori umili in cui si accontenta di essere sottopagato pur di non dover alzare la voce; a lui non piace urlare, gli ricorda inconsciamente la madre che si osservava putrefarsi allo specchio, quando lui era ancora piccolo. Ecco perché adesso appare infastidito, le persone che gli stanno intorno sembrano impazzite mentre lo osservano puntare la pistola alla tempia di Evelin Tessy, giovane senegalese con regolare permesso di soggiorno. Il killer fa dei gesti osceni, perde tempo mentre i secondi passano inesorabili per tutti noi.

23:58 – tre secondi di un nuovo minuto sono tutti quelli che la ragazza riesce a vivere, ma muore fiera, guardando il suo assassino, sputandogli sulla mano e la pistola che sta per portarla via, sussurrando una preghiera a Dei sconosciuti mentre una lacrima le riga il viso al pensiero che il suo piccolo bambino è stato costretto ad osservare questo scempio; e anche lui, in un inversione di ruoli rispetto alla piccola Grazia e suo padre, rimane vivo per poter continuare a soffrire, raccontare la sua storia e, se vorrà, vendicarsi nei prossimi due minuti, o poco meno. Charlie nel frattempo è partito a corsa, si sta dirigendo verso un gruppo di anziani signori, un gruppo di uomini altolocati che devono essere professori, avvocati, dottori, una casta scocciata di doversi mescolare alla massa in questi eventi mondani. Lo osservano sopraggiungere veloce e furioso mentre sfodera un coltello CRKT ‘H.U.G’, compatto ma devastante se piantato nel collo di uno di questi intellettuali perduti. Il malcapitato è Luigi Pesimena, filosofo nichilista e teorico dell’Avvento, il giorno che festeggeremo entro breve; l’uomo sorride al killer, invocando una morte paziente che gli lasci assaporare il brivido di adrenalina destato dopo anni di appiattimento, e saluta con un rigurgito di bile e sangue i colleghi sfigati, inorriditi da questa dimostrazione di sdegno materiale. Anche Charlie sorride, ha sempre desiderato sfoltire la giugulare di uno di questi cervelloni, diradare la presenza di queste creature dedite solo alla propria scatola cranica, che però il maniaco omicida rispetta e lascia intatta, non gli piace sciupare le cose a cui, nonostante tutto, riconosce un valore. Lui non è mai stato particolarmente intelligente. A scuola i bambini si dividono in ‘può fare molto ma non si applica’ e ‘vedo che si impegna molto, eppure…’ e Charlie faceva parte della seconda categoria. Non ha talenti naturali, e sembra destinato a un esistenza piatta, quando due anni fa, in questo periodo, succede qualcosa: si innamora. Non parliamo di un rapporto platonico a base poetica, ma vera carne su carne, corrispondenza di sentimenti e tutte le altre illusioni che il compagno imperatore Vlarge Busin combatte con successo da anni. Ma Charlie e Angela, questo è il nome di lei, sono felici, e a lei, bellissima, non sembra importare la repellenza che il consorte solitamente ispira nelle persone, anzi, crea intorno al ragazzo un alone di esclusività che rende lei un eletta benefattrice focosamente ricambiata. Ma, come tutte le cose belle, dura poco, e lei si invaghisce di un carismatico leader religioso in tour con la sua parrocchia di chierichetti potenziati; scappa con l’uomo lasciando a Charlie una bottiglietta di profumo, un Guerlain ‘Insolence’ che lui manda giù tutto d’un fiato e poi vomita provando solo schifo, per se stesso più che per l’amante perduta, sa che non può inquisire altri per la costanza dei suoi fallimenti. Da quel giorno Charlie diventa ancora più cupo, si isola da un mondo che non l’ha mai accolto, smette di tentare di sentirsi parte della condizione di diffuso benessere che la popolazione ha raggiunto, sempre secondo le inequivocabili statistiche di sua sovraordinata democraticità Vlarge Busin. Ad ogni modo i due ciccioni che adesso Charlie ha legato assieme non sembra che nella vita se la siano cavata male: lei, Jenny Waine, è cosparsa di gioielli che ne sovrastimano l’opulenza; lui, Manuele Uripe, indossa un completo Dries Van Noten fatto su misura che gli lascia scoperte le caviglie, ma a quanto pare si porta così, e poi voi plebei non avete facoltà di giudicare l’estetica dei ricchi. Charlie li ha legati con una fune che non dev’essergli costata molto ma in compenso lacera bene sia i vestiti che la carne dei due coniugi urlanti che vengono stretti assieme in una morsa soffocante, i loro colli grassi circondati da questa collana grezza che si stringe ad ogni movimento inconsulto dei due, che nella poca furbizia si dimenano forte, tentano di divincolarsi con violenza, poi sempre meno, sempre più piano, finché non cambiano colore. Charlie odia la gente grassa, odia se stesso nonostante non sia più sovrappeso, odia l’amore, soprattutto perché tra esseri abbietti sembra possibile, mentre a lui è precluso. Non sa che entrambi gli aristocratici cotechini finanziavano la tratta degli schiavi brasiliani, concedendosi spesso un 10% dei loro investimenti, giusto perché esiste una bellezza oggettiva che ti affonda nella carne, a volte, a volte no, a volte non più. In questo momento nelle orecchie di Charlie c’è ‘Behind the Light’ degli Zuul FX, in onda su DarkCloud Radio. Forse attraverso un’interferenza riceve anche noi, perché guarda in alto, verso l’elicottero, e sembra che le nostre parole aumentino la sua brama di sangue; ma noi siamo protetti, e non ci risparmiamo di provocare ulteriormente l’ira del buon Charlie, vittima e carnefice al tempo stesso.

23:59 – Charlie si concede qualche secondo per urlare tutto il suo sdegno verso la madre terra, prostituta spaziale, aborto di un moto d’espansione universale, condannata a generare vita che brama morte, a vedere i figli coalizzati in un matricidio consapevole. Lui non vuole uccidere lei, che è già maledetta, il cui destino è stato scritto centinaia di anni fa e confermato nel 2008, anzi, vuole aiutarla e portarsi via un po’ di quei figli indegni che la calpestano senza rispetto; ma al tempo stesso la odia profondamente per aver dato il via alle sue pene, come a quelle di miliardi di creature brulicanti che oggi più di sempre si affollano qua, in piazza Radhuspladsen, per assistere all’Avvento e per farsi sterminare senza pietà da Charlie, che proprio adesso ha gettato a terra Federica Altravanti, una studentessa apparentemente anarchica. Gli punta la pistola addosso, ma non spara, preferisce prenderla a calci nel costato e in bocca, mentre la giovane confusa continua a urlare frasi sconnesse tipo “sesso libero”, “per Bakunin! Fermati” e “niente manicomi criminali”; se lei ne è convinta tanto meglio. Per Charlie questa è una rivincita nei confronti di tutti i grandi e piccoli nuclei sociali che nonostante propongano libertà e uguaglianza l’hanno sempre rifiutato, perché alcuni sono più uguali degli altri. Charlie indossa un comodo paio di anfibi ‘patrol’ della Tracpac con il tacco rinforzato che, a forza di calci, finiscono per condensare i lineamenti della ragazza un tempo schierata adesso solo morta; Charlie controlla il grande orologio che è stato montato per l’evento, scuote violentemente la testa tenendosela con una mano, con l’altra si appende a un medico di mezza età e gli vomita addosso senza troppo riguardo. Il medico non sa che fare, tenta di tirare fuori un taccuino per prescrivergli un’aspirina, oggi illegale ma un tempo panacea diffusa apparentemente senza controindicazioni; dopo sette milioni di bambini mutanti poi qualcuno è normale che inizi a farsi delle domande. Charlie pensa che l’uomo voglia difendersi e lo stende con una coltellata nel ginocchio e poi in pieno petto, lasciando l’arma conficcata, tanto non c’è più tempo per questi utensili specializzati. È arrivata l’ora di rivelare il contenuto del sacco speciale, il borsone da palestra che Charlie ha portato con se e adesso giace in attesa di essere aperto per svelare il contenuto. Ecco che si avvicina, tira la zip ed estrae; davanti ai vostri occhi l’eccezionale Benelli ‘M4 Super 90’, semiautomatico calibro 12, campione di affidabilità e precisione, un’arma pronta ad ogni evenienza che si adatta perfettamente alle situazioni più diverse, dall’assalto alla difesa personale, fino all’omicidio di massa. I primi sei proiettili esplosi in altrettanti esseri non più senzienti non mancano di destare un certo stupore per l’efficienza dell’arma, tanto da sollevare un leggero applauso di incoraggiamento. Charlie ricarica veloce, e sa che l’ultimo colpo spetterebbe a lui, ma ormai il tempo ha smesso di avere significato, la sua vita non ne ha mai avuto e tanto moriremo tutti, quindi attendiamo con ansia il finale di questa vicenda. Infatti c’è un colpo di scena: il nostro ragazzo urla feroce il nome della ex fidanzata, intravista tra la folla abbracciata al guru che osserva impassibile lo scorrere degli eventi; lei invece è terrorizzata, si sente in parte complice, ma Charlie sa bene che non ha responsabilità, e continua a saperlo anche quando fa esplodere il collo del santone, che non fiata nonostante le nuove prese per l’aria. Charlie stava ascoltando i 24 Give, ‘I’ll Be Good’, ma si è tolto gli auricolari e va verso Angela. Mandiamo in questi ultimi secondi il nostro microfono ultraleggero a propulsione, per sentire quello che i due antichi amanti hanno da dirsi. Inizia lei a parlare:
- Come stai?
- Una meraviglia, ti ho fatto un regalo, hai visto?
- Non dire cazzate, l’hai fatto per te, lo vedi che hai i pantaloni bagnati?
- Ops… cavoli, li avevo comprati da poco, sono Alexander McQueen originali. Vuoi dire che non ti piace?
- Charlie, hai dei pezzi della laringe del mio ex fidanzato sulla spalla. Non è carino, te ne rendi conto da solo, vero?
- Dici bene, da solo.
- Oh Charlie, lo sai bene che la solitudine l’hai costruita nel tuo cervello. I media hanno voluto ricamare sopra al tuo personaggio e adesso ti fanno sembrare un escluso sociale, un reietto alienato con delle tare mentali, ma a te non è mancato niente, quello che sei l’hai scelto. Certo, se poi fai comunicati stampa il giorno prima di diventare uno psicopatico invasato è normale che dai tempo alla gente di prepararsi una storia commovente.
- Ma il mio cane…
- Si, so che gli volevi bene, ma non ti giustifica affatto. Mi dispiace Charlie, puoi illudere chi ti pare, non me: non sei una vittima del sistema, e non sei manco un sociopatico. Sei uguale a tutti noi, casomai con un tocco di fantasia in più e qualcosa in meno da un'altra parte [sorride NdA]… ma insomma, vedo che perlomeno ti sei divertito in questi ultimi tre minuti.
- È stato fantastico, non posso negarlo, ma avrei preferito che andasse in modo diverso. Sai, il tempo e tutte queste cose che si pensa funzionino meglio degli psicofarmaci, mi sa che è tutta una balla filomeopatica.
- Non stare ad affliggerti, ormai è andata. Hai un ultimo desiderio?
- Non c’è tempo.
- Hai ragione, ma puoi sempre pensare che forse ti avrei esaudito.

00:00 – È finita. Non stiamo trasmettendo da nessun luogo. L’Avvento è avvenuto come previsto dalle profezie, e se ancora state leggendo pensate che tutto questo è sempre stata un’illusione, ed è giusto che sappiate come si è concluso l’ultimo omicidio di massa dell’umanità poco prima dell’Apocalisse, che a dire il vero è stata piuttosto repentina, come un dilatato senso di compressione in uno spazio bianco limitato da confini intangibili. Beh, Charlie non ha voluto pensare a niente mentre una lacrima gli rigava la guancia, si è messo il fucile in bocca e ha premuto il grilletto nell’istante in cui la mano di Angela si alzava, e nella loro ultima posa il proiettile non raggiungerà mai la testa dell’assassino, così come la mano di Angela non riuscirà a impedire che questo accada. Ma forse voleva solo togliergli di dosso quei pezzetti di carne, così antiestetici, in modo da renderlo presentabile al cospetto della Fine.

domenica 5 ottobre 2008

Over Dusk

Mi incontro al semaforo; in attesa di un colore raro aspetto veloci passaggi che non devo avvicinare nonostante le sfumature dell’acciaio. Guardo e ascolto l’ambiente sonoro creato attorno, rifletto i passaggi disordinati in skip veloce per spezzare la continuità di attacchi indesiderati. Partecipe della vita come una dose di terza persona singolare posizione mi trovo a descrivere nel vedermi gesticolare intorno a un sorriso teso ad esserlo veramente grazie a sottili giochi di specchi che restituiscono ciò che desideriamo vedere; per le nostre smanie voyeur, anche se a scrutare a volte si guarda in fondo ed è buio. Bloccati da un rosso immobile aspettiamo di reagire agli impulsi visivi e motori innescati dal rispetto verso determinante forme di legislazione stradale, e c’è ancora tempo per timide osservazioni sullo stato di multipersonalità possibile a un incrocio. Un incrocio, diramarsi di strade che non si incroceranno mai più, scelte da fare con il proprio ES come unica risposta, che trema e sorride beffardo verso chi invece attende sempre un momento oltre quello opportuno per iniziare a muoversi.
- il tuo atteggiamento mi disgusta, ma al contempo mi offre tempo da perdere in vaghe allucinazioni -
- vivo, mi è stato concesso solo per un breve periodo di prova e poi il diritto mi sarà revocato -
- allora seguimi –
Opposizioni al Magenta. Giro a sinistra mentre vado a dritto, ma siamo ancora assieme, accanto su questa pista senza podio, ma solo altra strada da fare, senza troppa compagnia se escludiamo le nostre proiezioni. Odoro d’alcol fermentato dentro, di tempo impiegato a scegliere una pena più lunga per renderci insoddisfatti ma provati, di notte impregnata sotto la pelle.
- da quanto hai smesso di crederci? -
- ci hai mai creduto? -
- non tu, tu me lo dicevi, e io ti ho ascoltato -
- volevi rendere le cose semplici -
- volevi, ma non vale, non sapevi –
- cosa vuoi? –
Seguirmi senza perdermi, e finché non sale la nebbia tutto bene, posso avanzare tranquillo che se qualcuno cercherà di uccidermi lo farà per il mio bene, Mercedes o BMW non m’importa più, le statistiche servono a rassicurare che qualcosa succederà anche a noi, e ci verrà rivelato in un momento di silenzio quando riusciremo a parlarci davvero, svelarci senza l’imbarazzo tipico della realtà senza filtro.
- arrivare, no, stai mentendo, perché non si può stare immobili -
- vuoi riposarti? -
- Non adesso, non ci sono traguardi da raggiungere, e senza saperlo sei in discesa -
Ti abbandoni ad un vento creato per contrasti, ad ali spiegate plani e cerchi di spiegarti, e a volte ti schianti senza che qualcuno abbia avuto il tempo di capire cosa è successo, perché è tardi. È sempre troppo tardi per guardarci alle spalle e trovare che le uniche scapole sono le nostre, che ci seguono ostinate nell’arrampicarci su fortezze intangibili. Scruti l’orizzonte e scopri d’essere caduto.
- mi sono fatto male -
- mai sostenuto il contrario, sei l’unica causa, stai più attento -
- perché sei venuto? -
- per aiutare al alzarsi -
- non mi fido -
- infatti mi piace guardarti contorcere in posizione fetale in attesa di un ventre accogliente -
- è colpa… -

Ma non c’è nessuno verso cui puntare il dito, perché stasera me ne sono andato.

giovedì 25 settembre 2008

L A B B R A

Sono solo labbra. Frammenti di carne che si infrangono in silenzio per reciproca ammissione. Senza aver detto una parola le labbra si muovono, danzano per se stesse e per gli altri, per parlare in ogni momento in cui non si riesce ad ascoltare; ho visto labbra tremare e labbra perfette andarsene senza essersi mosse, labbra che si mascheravano per sentirsi migliori per mascherare le parole che non sarebbero mai riuscite a pronunciare, labbra senza senso che faceva senso pensare di entrarvi. Labbra per raccontare momenti di tristezza incurvati in basso o per rabbia tirate spalancate pronte a mordere e compensare la violenza di tutto quello che non si è potuto dire, labbra che lottano con gli occhi per dissociazioni emotive, che hanno parlato troppo e adesso non sanno più cosa dire, e si mordono timide per essere state osservate forse oltre ciò che la morale impone in leggi mai scritte. Sono solo labbra quelle che hanno il potere di lasciarti andare e riprenderti nei momenti opportuni, quelle che possono ridere e trattenere le lacrime assaporandone l’amarezza, labbra prima del baratro e del paese delle meraviglie ti tengono sospeso la notte ad aspettare con chiacchere superflue per uccidere gli istanti prima delle labbra, prima di potersi affermare per avere una risposta che a volte si da solo con le labbra e sembra una verità assoluta che nessun altro potrà mai possedere. Sono solo labbra quelle che pronunciano illusioni in cui avvolgersi e cullarsi, a volte sono nella nostra bocca, a volte no, perché sono le labbra a decidere, a trasportarci dove vogliono modificando dopo ogni parola l’intenzione di quelle labbra che già sanno di poter avere ancora quella stupida assoluta emozione di essere sulla carne calda e umida di labbra che non sono più estranee tra loro. Labbra con realtà soggettive valide per pochi, per se stessi e una figura transitoria che si trova a passare su queste sensazoni di pelle nervosa, labbra per negarsi e indicare la prossima esplosione, per osservare le proprie macerie a labbra aperte, per descrivere la paura di ciò che sembra lontano dalle quelle che sono solo labbra, ma non sono le mie, e fanno a pezzi.

lunedì 15 settembre 2008

E.laMorte

Siena - Si chiamava Eleonora ed aveva vent’anni. E’ morta a causa di un mix sbagliato di alcol e droghe assunto durante un rave-party a Sovicille in provincia di Siena. Ma sarà l’autopsia a stabilire l’esatta causa del decesso. Una quindicina i giovani interrogati. Eleonora era partita sabato sera da Siena insieme alla sorella e ad un gruppo di amici per andare alla festa organizzata da gruppi di 'punkabbestia' in un capanno di caccia nel territorio comunale di Sovicille grazie al tam-tam scattato attraverso internet e catene di "sms" […]

Alle 9:30 stavo lottando contro la sveglia per non alzarmi, e a qualche chilometro da me un’altra persona finiva di lottare per svegliarsi, senza potersi alzare più, senza più alba negli occhi, solo il tramonto prima della festa, le ultima parole agli amici, gli ultimi passi scanditi dai bassi potenti di un subwoofer. Per essere precisi si chiamava Eleonora LaMorte, e il suo cognome non le ha portato fortuna. Ketamina è il nome del suo omicida, Eleonora è il nome del suo omicida, Noia probabilmente un complice, Rave un evento sociale in cui ognuno decide personalmente come arrivare un po’ più lontano, come tendersi verso altri significati personali, per sentirsi più espansi dell’Universo. A volte una pasticca è come un amante, forse ancora più profondo e letale, ci tiene la mano fredda dopo giorni di pioggia fitta e grigia, e come si fa a non voler essere amati quando tutto il cielo ci circonda di lacrime, e senti che neanche lui può farcela senza un aiuto. Una droga sintetica è l’ombrello, il giaccone impermeabile, la sciarpa e il fiato della persona che abbiamo accanto che si condensa vicino alla stessa aria che stiamo respirando, insieme. Solo che una dose è soggettiva, individualista, sola come chi la lascia sciogliere lentamente sulle proprie percezioni fino a partarle al collasso. Forse nell’atto stesso della Morte ha raggiunto una dimensione che in pochi hanno vissuto per l’estremo sacrificio richiesto, forse è solo passata su un altro profondo piano dell’esistenza, forse è morta a vent’anni, come chiunque abbia vent’anni e non sappia che farsene. Fine della prospettiva. E anche se non ho senso e di questo sono convinto, perché sono graziato e qualcun’altro muore? Una persona che forse cercava davvero qualcosa, che non perdeva pomeriggi a piangersi addosso ma aveva deciso di fare passi lunghissimi per mettersi alla prova: uno stupefacente è ginnastica per la mente e lo spirito, e il corpo deve poter reggere la pressione sensoriale imposta. Dovrebbe e a volte non può. Sarebbe troppo bello resistere, farcela sempre, ma la morte è la fine, più o meno. “As you lie here, does it feel / As if it was such a good idea / In tempting fate / Are you sorry now?” ed essere a pezzi, perché in fondo era bella senza voler essere oggettivi, affascinata e curiosa, mora con un Monroe d’acciaio che l’aiutava a sorridere. Cresciuta a Siena ma evanescente, frammentata e discontinua, parte di una congrega di fiammiferi in un incendio, a volte si brucia. Nessuno cerca la Morte, non chi si droga, non chi si lascia divorare, non chi beve, non chi si uccide, nessuno vuole veramente morire, desidera solo qualcosa di più intenso della vita possibile in un giorno di pioggia. Stasera è a te che penso e a te dedico una lacrima, oggi per te l’oblio e per noi l’immagine di quei pochi attimi che ti abbiamo vista passare, ancora ricordi per qualcosa che non c’è più. Domani torneremo a vivere, ma solo domani, oggi non è il caso.

A vent’anni tutto è fatale se si sceglie di essere fragili.

domenica 14 settembre 2008

frazioni di fratture

Sensoriale
oblio senza risa
che ci annulla

Strappare chicchi d’uva dal raspo, al cospetto della luna osservarne i rilessi, inestricabili puzzle d’ombra formati dai raggi dopo giorni di cieli spezzati, tumultuose si susseguono le nuvole divorate come questi frutti di settembre, nati dal marcio, dalla mutazione attraverso la morte trascendere e trovare dolcezza, tutti cadiamo mentre giochi d’attese senza regole vengono portati avanti con la sottile noncuranza che li rende fatali. Ticchettare le dita e osservare il gaudio borghese invitato a cena da persone con cui condivido solo a volte il genoma e il destino, mangiare senza ridere per umorismi non allineabili parlare di se senza svelare che non siamo noi ad aprire bocca ma usiamo cortesie circostanziali dovute alla socievolezza innata di animali che continuano ad aspettare, chi la musa chi lo stipendio, e gli uni non dipendono dagli altri se il denaro ci rende lipidici, la musa libidici. Vederci mangiati dalle portate, il corpo si gonfia pieno di se vuole esprimersi con gesti di ampia approvazione e banale consuetudine applaudire e vomitare di nascosto per i successi degli altri, sorridere poi rievocare il dolore di chi non è presente per ricordarci la dedizione alla catastrofe, inevitabile? Ci nutriamo di sofferenze, sorrow / pain, che suonano così male forse perché esprimono il male che non è tale se si considera l’esperienza ed è assoluto se non si riesce mai a fare un passo oltre, tornare. Trovare Amore per queste pagine digitali, un giochetto per demoni, più difficile per mortali aprospettici che invece di aspettare eseguono rituali stanchi e nel momento in cui l’attesa finisce, sempre troppo tardi, osservano quello che hanno ottenuto nel frattempo lo rinnegano, come padri di un coito interrotto volontariamente. Chiuso, ho bevuto troppo fumato un po’ annientato altrettanto dall’immobile vetro che sorregge la fronte di un giorno in casa, osservare stanco dei mutamenti informi desidero senso essenziale, capire perché nella musica degli iLiKETRAiNS è la traccia sette a destarmi dal vuoto. Ripetersi fa parte del ciclo, ma bisogna sapersi improvvisare vortici a volte per portarci via. Niente panico, il vento ci porterà.

Come il freddo che mi ha reso permeabile alla pioggia ho urlato senza sentirmi sapevo di usare parole non mie per descrivermi al cielo volgere le braccia ed aggrapparsi all’aria e i suoi castelli, memorie di un passato prossimo. Evoluzione beatamente fallita insegna il decadimento compositivo della sostanza instabile che ci compone, buonanotte.

lunedì 1 settembre 2008

H A i K U

oggi sogno di
cadere insieme
la pioggia

[desiderio]

del temporale
per tornare sereno
il coraggio


martedì 26 agosto 2008

[S]COMMESSA

Reparto dei pelati. Trovo molto razzista essere discriminati per aver fatto una scelta estetica funzionale, ma è veramente disumano pensare che oltretutto ci obbligano a mangiare solo pomodori; semplicemente ridicolo. Prendo una scatola di polpa e mi guardo in giro, attento a gesti di conferma o di diniego legati alla mia autonoma decisione, ma nessuno risponde, nessuno sembra voler creare parallelismi o contrasti con questa scelta, tutti troppo presi ad acquistare cibi surgelati precotti o addirittura predigeriti, per i più pigri. In realtà sto cercando tra la gente qualcuno che pur non somigliandomi condivide ancora qualcosa con me, e sono anche in questi momenti di quotidiana banalità che si evincono certe mancanze; scuoto il capo, ripeto che tutto andrà bene, mi mento ancora un po’ e poi vado verso i sottoli. Desidero perdermi fino a sbattere contro il futuro prossimo, sperando che sia carina, passionale, riflessiva ma innanzitutto concreta, reale, fatta della stessa materia con cui viene plasmata solitamente l’umanità. Niente da fare, però ho trovato il tonno in offerta, ne prenderò due scatole, non sia mai che anche il tonno venga a mancare improvvisamente. Continuo a dimenarmi tra gli scaffali, la luce al neon offre al pubblico un colorito radioattivo piuttosto interessante, tanto che mi metto a seguire la donna dei panieri di plastica, asiatica verde coop. Ritorno inconsciamente al banco della verdura, c’è una signora che sta tossendo sul cesto delle carote; mi metto in fila dietro di lei e quando se ne va, nonostante detesti la famiglia delle umbelliferae, prendo tutte quelle più in superficie, non sia mai che lascio sfuggire un’occasione del genere. Poi la bilancia prezzatrice, la mia preferita, con tutte le figurine sintetiche che premute innescano quel rassicurante automatismo adibito all’emissione dei un etichetta rivelatrice di quanto pagherai; la mia dice: atroci contorcimenti vegetali nel secondo girone del settimo cerchio per l’incapacità di controllo di pensieri autolesionisti, al chilo chiaramente. Com’è diventata cara la verdura al giorno d’oggi. Sono di nuovo immobile e inosservato tra il brusio sacro della lettura della lista, il confronto dei prezzi dei litchis, la critica delle ammaccature sulle mele, l’attenta analisi della provenienza dei frutti fuori stagione, l’interpretazione delle striature sui cocomeri e l’onnipresente tirare su col naso vicino ai poponi. Mentre osservo un ragazzo mettersi a piangere davanti ai peperoni rossi viene costruita intorno una muraglia di carrelli che mi imprigiona vicino alle melanzane, a un passo dalle insalate. L’asiatica [commessa, non insalata] nota la mia difficoltà claustrofobica, accoppa un’anziana con un cetriolo e mi viene in soccorso; la ringrazio e continuo il cammino. I generi alimentari che desidero acquistare sono pochi e il viaggio è quasi al termine; mi bastano tre birre per dimenticare il succo tropicale, poi un salto davanti al reparto parafarmaceutico per osservare quello di cui non ho bisogno, poi le casse. Bisogna essere molto cauti nella scelta, osservare bene quelli che ci stanno avanti e ipotizzare coloro che potremmo avere dietro, fare una stima delle cassiere e delle condizioni dei nastri trasportatori, poi fermarsi e dire ‘va bene qui, tanto non ho nulla da fare’. Davanti a me l’ennesimo padre di famiglia perduto, mandato a comprare cose di cui non conosceva l’esistenza, prima di avventurarsi in questo misterioso dungeon. Ha le pupille dilatate e sudando copiosamente osserva gli ovini kinder, pensando a quanto desideri ardentemente una tartallegra che gli faccia da guida spirituale; non viene esaudito e spende poco più di cinquanta euro in cibo sintetico.
È il mio turno: la cassiera è over 30, mora, di carnagione scura, non bella, ma forse non è possibile definirla esteticamente a causa dell’espressione perduta, una disperata silenziosa incrinatura degli occhi che chiedono aiuto; le sorrido cercando di essere sincero, vorrei essere una presenza benevola nel tentativo di non peggiorare la vita a una persona che vede passare troppe persone, troppe abitudini alimentari ogni giorno. Lo sguardo che restituisce al mio sorriso le rende buffo il naso un po’ troppo grosso, poi mi accorgo che il naso è buffo e un po’ troppo grosso comunque, e che i suoi occhi non mi hanno mai visto perché passati attraverso e oltre ancora la signora che ama l’olio di girasole dietro di me, al di là degli scaffali verso un possibile punto di fuga. Il nastro si muove a scatti, passa la prima bottiglia e suona il telefono, uno strano citofono messo in orizzontale da cui, una volta alzato, non esce più suono; lei non sa cosa significhi, è tesa, la magrezza accentua i tendini delle mani tirate nel gesto infinito di dover prendere oggetti e passarli veloci, ascoltando l’elettronico BIP! ripetersi con un’aritmia lancinante. Le passano tra le mani le zucchine e le carote con bacilli, prima che qualcosa smetta di funzionare per alcuni secondi: il codice a barre sui pomodori non produce alcun suono. Basta poco per tenderla ancora, le unghie le si conficcano nella buccia dei solanum lycopersicum mentre scuote con troppa violenza il piccolo tagliando di carta appiccicosa incollato sulla plastica fragile della busta, se qualcosa non vi torna è perché ho comprato sia i pomodori interi che la polpa di pomodoro che i pomodori secchi sottolio, va bene? La macchina torna a funzionare ma la cassiera non può più nascondere quello che si è intravisto per un momento oltre le maniche della camicia: una lunga, bianca, obliqua cicatrice che le attraversa il polso destro.
Cos’è che non va, cassiera sconosciuta? Questo lavoro non può andare bene a nessuno, non per sempre, ma quella cicatrice sembra vecchia anche se male assorbita e ancora peggio occultata; ma a chi vuoi che importi, qua in mezzo, chi è che ha tempo da perdere a guardare i polsi di una cassiera triste? Lo sfregio non è esteso, ma sembra esser stato molto profondo, come a volte si è profondi anche se si finisce a lavorare alla coop, per potersi permettere la comodità di fare la spesa quando finisce il turno. A volte è difficile trovare l’ispirazione necessaria a vivere, necessaria come fare la spesa, e si finisce per cercare di finire, di finirci; ci vuole poco, basta unire ai soliti acquisti un pacco di lamette da barba, di quelle un po’ vintage per mariti più vecchi di noi, che sono scappati dietro alla donna delle pulizie appena immigrata. Basta aprire la scatola aprire noi stessi e aspettare che smetta di pulsare; e pensare che non posso permettermi di parlare per stereotipi di un gesto così intenso, come a volte si è in tensione anche se si finisce. A lavorare alla coop. Ma forse, cassiera commessa, il tuo era un gioco, una roulette russa in cui non mancano pallottole ma motivi per vivere, e si perde al contrario, se non se ne trova neanche uno. Ma tu devi aver vinto, o non saresti qua a far passare trecento grammi di pane oltre il sensore dell’archiviazione dei prezzi. Quello che ho visto mi mette a disagio, mi fa male una spalla mentre dici qualcosa riguardo alla mancanza del resto, e vorrei dirti che neanche io conosco il resto, tutte le esperienze che rimangono da vivere, ma che in fondo ho fiducia. No, a te mancano i centesiminimi. Annuisco e lascio due eurocent in omaggio alla coop [e questo alla faccia di chi pensa che io sia tirchio]. Lento metto la spesa in una busta logora che ho portato da casa, le birre nello zaino, e intanto ti guardo ancora: scrivi con gesti rapidi su un pezzetto di carta, non credo sia una lettera d’addio, più probabile un appunto per ricordarti il resto e continuare a lavorare, nonostante adesso possa sentirti da schifo, senza centesimi, illuminata dal neon, a doverti relazionare con estranei disinteressati. Non fai più caso a me, chiedi qualche secondo alla donna con l’olio di girasole. Anche questa storia è finita, devo ripartire
Mentre me ne vado e sono già girato sorridi meno tesa, e pensi che quando rifarai la pizza per i tuoi bambini e per la persona che ti ama dovrai stare più attenta, o comunque comprare una presina che copra le braccia un po’ più della tua, per quando estrai le teglie bollenti.

Di solito guardiamo il mondo in maniera sincronica al nostro punto o momento d’osservazione.

sabato 23 agosto 2008

FRAGMENTS, COME QUELLI DELLE ELEMENTARI

Ubriaco infetto prima delle cinque del mattino, in attesa di un’alba che sia vera transizione da uno stato all’altro, non definita da opposti ma dall’attività che porta scritta con se. Ho parlato con Dio, mi sono accorto di avergli chiesto tante cose senza mai chiedergli scusa, scusa perché vortico senza fermarmi e a volte non capisco, perché sono in guerra, quel conflitto tutto personale che mi vede barricato nei miei pensieri alienati. Guerra, oggi, ieri, sempre, sono morti cinquanta bambini in medio oriente, cinquanta individui a cui è stata revocata la licenza di crescere abbastanza per innamorarsi, per perdere anche, per provare ancora e fallire chissà quante altre volte, che cosa può fregartene quando al posto mio sono morte decine di persone che non avevano nessuna intenzione di frenare il proprio cammino evolutivo; e solo un pezzente occidentale può piangersi addosso, essere così patetico da dimenticarsi sempre che almeno la possibilità ce l’abbiamo ancora, spesso più del dovuto, più di quanto possiamo immaginare. Ma a Dio l’ho detto, questa storia dell’estate 2008 non va affatto; è arrossito, mi ha guardato scuotendo il capo, dicendomi parole che non saprei come tradurre, ma questo è il senso: problemi all’ufficio brevetti, questa estate non ha superato i test diagnostici ma l’abbiamo dovuta immettere comunque, eravamo già in ritardo. Vedi che allora qualcosa di sbagliato c’è, perché questa estate stiamo perdendo, noi stessi e gli altri, perdiamo la fiducia delle persone a cui diamo fiducia, ci facciamo a pezzi da soli, lentamente, ma l’estate non ha pietà e ci rinfaccia ogni cosa, lei, con il suo calore di cicale addormentate ci ricorda che l’eternità non ci spetta, non finchè è l’infinita mutazione a travolgerci mentre noi nuotiamo controcorrente, divani calducci ci riposiamo aspettando il crollo, la catastrofe, inevitabile come i Baustelle. Ma come si fa a inquisire la volontà, a portare al banco dell’accusa l’emotività e ogni paranoia formulata dal generatore automatico di incubi, è vero, ho di nuovo tirato teso temo tragici tempi avvenire se non riesco a liberarmi di quella pulsione, ma come si fa se è proprio Eros a contrapporsi tenendo per mano Thanatos. No, mi dispiace, la via ascetica la percorrerà chi la desidera, io vivo per appassionarmi, per essere portato via; sarà una tempesta continua? Meglio che affogare in un bicchiere d’acqua. Sapere cosa perdiamo, sapere cosa abbiamo; a me è rimasto l’affetto profondo di molte persone, la capacità di improvvisarmi senza sapere niente, a me è rimasto ogni sorriso, ogni goccia di pioggia che deve cadere ancora. E le illusioni: come si fa a vivere senza? Ma la gente pensa davvero che il desiderio, l’illusione e l’utopia siano così distanti tra loro? Sono parole che indicano tensione, e a sua volta tensione è una parola che sto logorando da quanto mi piace, così piena di prospettive, come me che a volte mi dimentico di averne e proprio in quel momento mi spezzo. Ma non buttatemi via, una cosa rotta non è per forza inutile, deve solo aggiustarsi ed essere più bella di prima, perché esiste di nuovo, più fragile. Con Dio ho parlato anche della fragilità, e mi ha detto che non è molto felice: lui ci ha donato la fragilità per affrontarla, mentre sembra che vogliamo sempre scappare per paura di romperci, a volte anche solo di sbilanciarci, di guardare oltre. Abbiamo paura di affrontare i problemi, e ci frantumiamo subito, come se nel guardare fosse incluso il moto gravitazionale verso lo schianto finale. Dio che hai donato il mondo per affliggerlo con la mia ubriachezza molesta nei confronti di Word97, abbracciami, perché hai messo in noi desideri che non tengono conto di niente, che si confondono tra loro, e adesso non mi concedi di ricordare il vento che mi accarezza la testa pelata, le stelle che mi ammiccano quando non c’è luna, lo sfregarsi sensuale delle onde di placenta nera, il sudore che mi si conficca nella pelle mentre sempre più veloce ingoio insetti volanti e sputo urla di Verdena, il bacio freddo del mare notturno intriso di notte. In ogni chilometro che faccio, dietro ogni chilo che perdo, dopo essere stato incollato all’asfalto sono più veloce dei ricordi, e corro a volte senza fuggire, a volte è già abbastanza.
Chi mi parla del tempo che passa solo a volte, chi mi parla dei sogni e della realtà in eterno contrasto, chi mi parla di lei o di te che leggi, chi mi parla di me, chi mi parla senza dirmi niente e chi non mi parla affatto [e ti prego parlami allora], parliamone. Ma agiamo, io con voi, e soprattutto: Grazie.
Anche al delirio, che a volte troppo male non mi vuole.

mercoledì 20 agosto 2008

BURATTiNI

[da leggersi velocemente con canzoni folcloristiche partenopee in sottofondo]

“Che fatica! Stasera il pubblico faceva schifo, sembrava che per farli applaudire dovessi strappargli le mani e batterle insieme da solo; per fortuna c’erano i bambini, che urlano tanto visto che con le zampette fanno meno rumore. Si, per fortuna. E poi Yorick, incapace, per poco durante la scena fondamentale non mi trovava Giuseppina; certo anche quella è proprio strana: che non gliel’ho detto che Pulcinella vuole solo i suoi baci e battere le sue manine legnose, che ai sentimenti non ci pensa? Vuole recitare commedie, creare burle sempre nuove con le quali deridere amici e nemici; e io che gli do voce e lo faccio parlare, che cerchi di cavarsela da solo ogni tanto. Però è stato bravo, mi ha aiutato. È lui che ha detto a Chiara di salire sul palco, Chiara, così piccola e docile, che mi guardava agitare i burattini e sorrideva; quanti anni aveva? Dieci anni, una decade che le ha fatto solo del bene, si leggeva nei suoi occhi vispi che sarebbe diventata importante. Però dopo un po’ si è scocciata, e il verme, suo padre, è venuto subito a prenderla in collo e consolarla, portarla via. Ah, proprio prima che Giuseppina si confessasse di nuovo e ricevesse l’ennesima batosta da quel malandrino, quel ciocco sbilenco e maleducato. Ma cos’è questo rumore di lacrime affrante? Oh NO! La strega, piange di nuovo; lei non ce la fa proprio a dichiararsi all’Angelo, e sai che ha ragione, quant’è brutta, però mica può disperarsi così ogni volta che esce di scena. Andiamo a consolarla prima che cerchi di nuovo di scucirsi.
STREGA! Come te la passi? Non bene lo vedo, ma te l’ho detto che l’Angelo non fa per te: oggi siete stati bravissimi, tu non volevi dargliela vinta mai e lui si struggeva e ti donava sempre di più pur di sapere dov’era finito il suo protetto, ma tu niente, irremovibile come una lapide! Perché allora quando finisce lo spettacolo i ruoli devono ribaltarsi così: tu a struggerti, e lui che se ne vaga candido e indifferente, dispensando dolci, piccole carezze. Si, eravamo assieme ieri sera, ma questi non sono affari tuoi, non facevamo niente che possa interessarti. Dai, non fare l’offesa, la tua collaborazione mi è fondamentale, non si trovano mica in giro burattini come te; però devo guardarti gli occhi, non si accendono più come un tempo. Adesso riposati che domani dobbiamo andarcene, ho paura che la mia presenza non sarà poi tanto gradita.
ANGELO! Vecchio mio, anche stasera ci tocca fare le ore piccole, ma che vuoi fare quando si hanno delle necessità la lancetta delle ore sembra sciogliersi come in un quadro di Dalitte? Ma cosa dici, esiste questo pittore, è francese; ma che parlo a fare con te che l’unica cosa che sai fare è muovere le mani dolcemente su vecchi e, bambini. Hai preso tutto l’occorrente? Andiamo. Sai, la strega impazzisce davvero per te, sta diventando ancora più brutta e piange talmente tanto che uno di questi giorni gli salteranno le lampadine negli occhi, mannaggia, e tutto perché sei un malandrino e usi la tua arte per piegare gli animi, per sottometterli alla tua volontà perversa. Sai a volte penso che metti il tuo malizioso zampino anche su di me, ma poi mi ricordo dei lividi, gli occhi gonfi di lacrime e sangue, schegge di denti sul pavimento sudicio, e ti ringrazio, ma non ti devo nulla che non fosse già nel mio animo, o sotto al mio letto. Guarda, la corda si è sganciata di nuovo, è di nuovo sul pavimento, che noia. Non ti sembra che si muova? Ci sono strani rumori in giro, chissa dov’è… YORICK Che ci fai qua? Non volevi, cercavi Giuseppina, si lo so che la perdi spesso ma ti avevo detto che qua non dovevi venire, oh, non scappare, vieni; sai è un peccato, di assistenti non se ne trova molti in giro, chi è che ha voglia di lavorare in questo campo dopotutto? Ma certo anche te che potevi dormire in questo momento, e invece no, sei svegli e gironzoli. Guarda in che stato sei, così sporco e tutta la barba sfatta, è un peccato non raderti la barba a fondo non trovi? Ma io te l’avevo detto che, anche se non ti si vede mai sul palco e nessuno nemmeno lontanamente percepisce la tua presenza, misericordia devi essere presentabile! Che ne dici Angelo, sta meglio il nostro amico Yorick, ‘Yorick il curioso’ lo chiamerò d’ora in poi, per qualche minuto ancora. Allora, ti fanno male guance? Ma tu non sei bello con la barba, e anche tutti questi peli schifosi che hai sul corpo, no, NO, dobbiamo toglierli; Angelo, le forbici! Grazie, lo vedi com’è più bello adesso Yorick il curioso. Guarda spuntiamo da una parte, qui intorno al capezzolo che resta, e poi qua in profondità, nell’ombelico, e intorno al pube, DISGUSTO, tu non sei candido e liscio e mi fai rivoltare, ma ci penso io a renderti più carino, ecco così adesso viene davvero da chiedersi se sei un maschietto o una femminuccia, e a chi vuoi più bene Yorick il curioso, a chi? Al babbo o alla mamma? Sono morti dici, bene, non ho voglia che qualcuno pianga quando non sono presente, l’amaro degli occhietti strizzati, le urla stridule rotte dai singhiozzi senza fiato, quanta poesia prima del silenzio, prima che il mio corpo grasso si trascini via con l’Angelo ancora in mano, che applaude. Smettila di guardarmi così Yorick il curioso, so bene che non lo dirai a nessuno e che dopo stanotte non ci vedremo più, perché mi dici cose che già so, raccontami qualcosa, una favola con i draghi, di quelle che fanno paura e ti fanno stringere forte al narratore, che con gli occhi sgranati e la voce possente ti tiene in pugno e ti costringe a stare attento a quello che succede e poi BU! AhhaaH, che paura eh!? Ma non mi dai soddisfazione, sarà che sei così alto, troppo alto, ecco così inizia ad andare meglio, un paio di colpi sicuri ed ecco fatto, ti farebbero male i ginocchi adesso se dovessi muoverti per scappare, ma dove vuoi andare mai? Ti è piaciuto almeno quello che hai visto qua, no? Scuoti il capo perché ti ha fatto paura e volevi andar via, ho capito, non volevo spaventarti ma a volte è così, in fondo io ho Napoli nel cuore e solo questa camion che mi fa da casa, così poche stanze e nonostante questo sei riuscito a entrare in quella sbagliata. Adesso capisci cos’era quell’odore da nausea a volte, vero? Sai, se devi andartene in fretta dai sospetti non è sempre facile trovare della soda per risparmiare tempo durante il viaggio, a volte capita di portarseli dietro per settimane prima di avere un momento libero. Ecco prendi un gelato, lo vuoi il gelato? No, allora lo mangio io guarda, io e l’Angelo ce lo mangiamo tutto e a te niente, ingrato! Yorick il curioso e l’ingrato, Yorick il bambino impaurito, Yorick in lacrime che supplica e nonostante tutto sa che diverrà sempre più piccolo, sempre più sottile, ecco via anche queste braccione da orango, veniamo dalle scimmie o dagli angeli? Diglielo tu Angelo da dove veniamo, dove veniamo. Angeli, è questo che vogliamo attorno a noi, angeli sublimi che ci amino, perché c’è troppo poco amore al mondo. Che dici che questo non è amore, certo che è amore, o non ci coinvolgerebbe così tanto. No, non siamo mostri come pensi tu, siamo quelle creature speciali che nessuno amava, e adesso abbiamo una nostra idea dell’amore, e tu sei il prossimo che ameremo, non piangere, sentirai quanto amore abbiamo da offrire al mondo che non ci desiderava, io insieme all’Angelo, nella discarica, i lividi, gli occhi gonfi di lacrime e sangue, schegge di denti sul pavimento sudicio e noi con le lacrime a pulirci le ferite del corpo e del cuore, ma chi ci capisce è bravo, io ho smesso di provare, adesso voglio solo l’amore negato che non ho mai avuto. Sono malato, è vero, ma cerca di capire, in fondo è solo sopraffazione, che dico, amore. Angelo, diglielo, urlagli che noi amiamo URLA Angelo URLA URLAGLI CHE NON LO AMIAMO E CHE TUTTO QUESTO È SOLO UNO SCHIFO!
Bravo Angelo, batti le mani, adesso pulisci, io devo andare a riposarmi, domani c’è un’altra finzione da tirare avanti…

martedì 19 agosto 2008

venerdì 15 agosto 2008

una STORIA TRISTE

Non è facile raccontare la storia di due entità di sesso femminile, innanzitutto per la mia esuberante villosità e le conseguenti difficoltà respiratorie; poi per la mia impostazione psichica, in cui spesso ma non sempre penso che sia una retta il modo più veloce di congiungere due punti tra loro, non un ramo d’iperbole tendente all’infinito in caduta libera sull’asse sintagmatico tridimensionale; da non dimenticare poi l’estroversione del mio organo sessuale, l’odore di sudore dopo la bicicletta, la tendenza alle calvizie, i rapporti spesso forzatamente triviali con gli amici, l’incapacità di godere di una sbornia nel passare dallo stato di sobrietà al coma in meno di un sorso e mille altri ameni particolari che mi definiscono uomo con le sue limitazioni e agevolazioni, tipo poter orinare in piedi.
Le persone di cui parlo sono due sorelle dai caratteri forti e diversi tra loro, creature generate dallo stesso uovo inseminato che nel crescere mutano forma e definiscono le loro personalità. La più vecchia, definita così per aver trovato prima dell’altra l’uscita dalle viscere materne, è Miss Nist Ogy: questa odia se stessa, la sorella e tutte coloro si macchino del peccato di far parte di quel genere definito da una doppia X sul corredo cromosomico; non ha sviluppato questo sentimento per motivi apparenti, sembra sia inscritto in lei dalla nascita, e questo la fa soffrire senza requie. Sorella giovane di Nist è Miss Stand Under: questa non capisce la sorella, ne se stessa, ne qualunque altra cosa al mondo necessiti l’uso dell’ormai atrofizzato prosencefalo; la sua tarda incapacità ugualmente la rappresenta da sempre, e solo a stento è riuscita a imparare l’uso della lingua e dei principali indispensabili movimenti senza i quali, aimè, la storia non andrebbe avanti, così come la vita di lei, che durerà comunque solo poche pagine.
Le due condividono la dimora dei non più presenti genitori, da cui si sono spartite i cognomi: Apol Ogy la madre, che fino in punto di morte si scusò per la propria vita vanificata nell’aver generato persone tali, e Taker Under il padre, che seppellì la moglie e poi se stesso in un impeto di contiguità semantica.
È in un giorno di pioggia intriso di grigio che Nist ragiona così:
- Che schifo la condizione in cui ci troviamo! Guardami sorella e osservati in me riflessa, distogli l’attenzione da quegli specchi mendaci e dalle cianfrusaglie con cui illudi il tuo corpo: guarda come la nostra carne si disgrega lenta e inesorabile, osserva le valigie che porto sotto gli occhi, il rovesciato sorriso teso tra la pelle delle guance avvizzite, come i seni si accasciano flaccidi mentre il tempo ci consuma. Ho atteso invano in tutti questi anni che la bellezza mi distogliesse da pensieri funesti, mi aspettavo di poter sciogliere ogni preoccupazione ancorandomi a un valore effimero, ma pur sempre intriso di un potere devastante, una forza che difatti ha spezzato gli uomini più forti e furbi della storia, costringendoli alla più umile sudditanza, necessaria per ottenere ciò che più bramavano nelle giovani amanti. Ho pensato che ridurre in schiavitù psicologica un essere umano opposto semplicemente dalla sottile linea della sessualità mi avrebbe donato la pace, avrebbe indotto una metamorfosi irreversibile nelle mie masochistiche convinzioni. E invece abbiamo perso ormai quella giovanile bellezza che ci avvolgeva pochi minuti fa, e in modo sempre più disgustoso ci ridurremo - esagera sempre Nist.
- Ma cosa dici? - risponde con un sorriso leggero Stand, che non potendo chiedere mai aiuto al cervello nell’ascoltare la sorella, si perde spesso tra i cosmetici testati su animali e bambini poveri.
- Dico che siamo destinate ad avvizzire come le susine che diventano prugne - e la similitudine coglie in fallo Stand, che non può rifiutarsi di capire ed emette un lamento languido:
- Oh no! Questo vuol dire che mi crescerà il picciolo, diverrò violacea e cadrò spesso dagli alberi… - Nist è già sul punto di trafiggere Stand con il ferro da stiro, ma si trattiene inveendo contro la natura che la opprime e ne ferma i gesti con la naturale femminile gentilezza, e per distrarre i pensieri si affaccia alla finestra che da sulla strada: osserva il vuoto di gente a tratti interrotto dalla fuga di individui sconvolti dalla crescente umidità dell’aria e dal peso del proprio corpo spugnoso che aumenta di volume. Guarda, persa nei suoi pensieri zeppi di rancore nei confronti di un umanità che a stento la comprende, e per la via appare un uomo, passeggiando lentamente si lascia lambire dalla pioggia, che invece di inzupparlo lo rende ancora più leggero, facendolo scorrere tra i ciottoli del marciapiede. Le altre figure in strada sembrano, nelle loro corse, cercare quanto possono di avvicinarsi a lui per poi fuggire doppiamente veloci lontano da questa austera, affascinante personalità materializzate in un corpo invidiabile. Nist è come pietrificata, per un breve lasso di tempo nessun pensiero la sfiora, e quando un po’ si riprende è l’immagine ideale di lui che le intorpidisce le membra, la accarezza lisciandone la pelle, rimettendo in sesto i seni, facendo per la prima volta comparire un sorriso che non sia per cinismo, ma pura passione e trasporto, tensione umana che precede l’innamoramento.
- Lui deve avere proprio un bel picciolo - è Stand che parla, arrivata silenziosa vicino a Nist per contemplare questo desiderio che cammina loro innanzi.
- Invitiamolo a entrare, sarà tutto bagnato - osserva Stand, e Nist si distrae un attimo a pensare quale favilla si sia accesa nella sorella, che così velocemente riesce a unire una causa temporalesca al suo più probabile effetto idratante; per la prima volta si ritrova ad essere d’accordo con lei, nonostante possa intravedere nella svampita Stand qualcosa di analogo al suo sentimento. Ma non ritiene quello il momento migliore per indagare la qualità di vita all’interno della sorella e, preso il k-way di latex, escono.
L’uomo sta ancora camminando, con lo sguardo perso davanti a se procede facendo finta di non accorgersi delle due persone che gli stanno arrivando incontro; quando la mano di una delle due si posa sulla sua spalla è con un sorriso benevolo che si gira, senza fiatare, aspettando che siano loro a proferire parola. Nist è piuttosto imbarazzata, tutti i ragionamenti fatti fino a questo momento non la soccorrono per giustificare quel gesto apparentemente insensato, e Stand la soccorre, inconsapevolmente:
- Buon giorno signore, che splendida giornata oggi per stare in casa, non trova? - leggera, Stand parla con il candore di chi non ha mai dovuto fare sforzo alcuno nella vita.
- Meravigliosa come dite, se si ha dimora. Ma si da il caso che abbia lasciato la mia per sempre, e mi trovi quindi alla ricerca di un tetto - affabile, si direbbe quasi malizioso se non fosse di modi così gentili.
- Il nostro è molto in alto, ma se vuole abbiamo un soggiorno piuttosto confortevole, se per lei va bene -
- Un invito, quanta gentilezza. Ma vedo un’altra signorina al suo fianco, non so se sia d’accordo con la sua idea; le dico che mi farebbe enormemente piacere intrattenermi con voi, senza voler offendere o fermarmi più del dovuto - guarda Nist e lei si scioglie, sentendo un calore molto più divampante di quello che sprigiona naturalmente il corpo costretto in un impermeabile sintetico.
- Mmh… veramente… ehm… sarei un’orata della sua presenza - balbetta Nist dopo alcuni secondi di profonda riflessione.
- Da quello che posso capire una scelta è stata fatta, quindi perché restare ancora sotto le assillanti gocce? Signore, nonostante abbia capito dove abitate lascio volentieri che mi facciate strada verso la vostra dimora, non indugiamo oltre! - e nel dire questo appoggia le sue mani su una spalla a entrambe, assolutamente ignare di quello che lui possa aver detto, una troppo presa dal suo moto interiore, l’altra perché dotata dalla natura.
Arrivati a casa le sorelle si tolgono le giacchette bagnate e prendono il soprabito di lui, assolutamente asciutto. Osservano prima l’indumento, poi lui, poi tra loro e poi di nuovo lui, che le guarda entrambe divaricando leggermente gli occhi e sorridendo.
- Si direbbe che lei è un tipo di indole allegra e asciutta - commenta Stand.
- Quanta sagacia mia cara, il suo acuto colpo d’occhio fa presumere che lei sia iscritta a una tra le più accreditate Università di questa città ignota ai lettori -
- La ringrazio, ma sono fiera di poter ammettere che tutto quello che sono lo devo alla Brassica Oleracea che mi ha generato - e nel dire questo ringrazia wikipedia con un delicato gesto della mano.
- Sono impressionato! Qua da voi poi è tutto molto bello, arredato con il fine gusto che solo due donne, una delle quali molto silenziosa, possono avere. Mi dica signora taciturna, posso sapere qual è il nome suo e della vostra amabile compagna? - e nel sentir pronunciare queste parole Nist sembra voglia vomitare, ma ingoia il principio del rigurgito e, con alito pesante, risponde:
- Siamo le due Miss chiamate Nist Ogy e Stand Under. Il primo è l’epiteto che mi appartiene, col secondo potete appellarvi a mia sorella, unita a me solo dalla discendenza e nient’altro. Volete sedarvi e dirci il vostro nome? - ancora un po’ sobbalza, ma sembra che abbia ripreso l’uso della parola.
- Mi piacerebbe a dire il vero fare un giro per la vostra dimora, accompagnato da entrambe, s’intende. Desidero vedere le stanze che vi accolgono, e capire se rendono giustizia alla vostra gentilezza -
Stand lo prende a braccetto e si avvia senza aggiungere altro, Nist per un po’ è scossa da tremiti, schiuma leggermente dall’intersezione sinistra tra le sue labbra, poi, dopo un leggero tocco di epilessia che le da lustro agli occhi, li segue. Dapprima lo portano al bagno, dove educatamente chiedono se desideri rinfrescarsi o adempiere a qualsivoglia tipo di dovere fisiologico, e rimangono fisse ad aspettare sulla porta; lui ringraziando declina l’invito. Poi è la volta della cucina, capolavoro dell’arte cuochiaia; in verità le due ne sfruttano ben poco le risorse, essendo abituate a una dieta composta da aggregati minerali spontanei e teflon. Nonostante questo le dispense sono piene, e le sorelle offrono all’ospite tutto ciò che contengono. Le dispense, non le sorelle, s’intende; egli rifiuta ancora, e le incita a proseguire. Passano allora al ripostiglio, regno dell’ordine assoluto: non c’è arnese fuori posto, nessuna chiave inglese manca dal raccoglitore, non un cacciavite spuntato, un martello abbandonato da una parte, una scopa sfilacciata; l’uomo si complimenta con entrambe per non essere mai state costrette a usare quegli oggetti, sui quali altrimenti apparirebbero inequivocabili i segni dell’usura. Loro ringraziano emettendo lo stridire dell’Athene Noctua, poi proseguono arrivando in salotto, dove comodi divani attendono solo che qualcuno vi si posi sopra stremato, e un grammofono emette il fruscio di una testina che sfrega su un vinile vuoto; Stand indica all’uomo un giaciglio di cuscini, su cui può riposarsi se vuole, ma tutt’altro che stanco lui desidera andare avanti, svelare i luoghi remoti in cui si sono formate le due sorelle. È così che passano davanti alla camera da letto dei genitori, in cui riposano immote urne cinerarie che mai hanno visto polveri umane; e poi la gabbia del canarino e il tostapane, la cuccia di un cane che non c’è, il ristoro balneare per tartarughe esiliate dal Polo Sud, la vasca dove molti anni prima è stata affogata una coppia di pesci rossi, si sa in queste vecchie case c’è sempre una storia macabra che attende di essere raccontata. Finalmente arrivano nel fulcro pulsante della casa, la camera da letto di Nist e Stand, dalla quale l’ospite inaspettato è stato rapito con gli occhi per la prima volta; entrano e lui subito si distende su un letto, concedendosi un lieve riposo dove solitamente si adempiono gli obblighi nei confronti di Morfeo; no, non farsi di eroina, sognare.
- Mie care, qua è tutto così affascinante e pieno di vita che sarebbe per me una gioia allietarmi ancora a lungo in vostra presenza, ma un crampo all’esofago mi assale; non è che una di voi potrebbe gentilmente portarmi dell’acqua speziata leggermente con radici e bacche di Giusquiamo nero? So che in queste zone se ne trova in abbondanza - e adesso al lettore piacerebbe ancora di più sapere dove ci troviamo.
- Certo - rantola a malapena Nist, che esce contorcendosi.
Stand e l’ospite rimangono immobili a guardarla uscire, e mentre lui pensa quanto aggraziati siano gli spasmi della donna, Stand si denuda.
- Pofferbacco! Quanta bellezza e quanta fortuna nell’ammirare un tale spettacolo, le doti che le sono state concesse vanno ben oltre il suo intelletto; ma la prego, non mi sento degno di una tale visione -
- Perché cosa vede? - chiede Stand aprendo le braccia.
- Signorina, lei è piuttosto nuda, direi che ad eccezione dell’epidermide nient’altro la copre; ma, la prego, non si tolga pure quella -
- Oh! Lei ha proprio ragione, mi perdoni; sa, ancora non ho imparato ad allacciarmi le stringhe delle ballerine, elemento portante del mio vestiario. Provvedo subito - e con aggraziata lentezza esegue il proposito.
- E io che credevo di dovermi finalmente abbandonare al piacere - sussurra lui tra se, sconsolato.
Nist ritorna poco dopo, portando un mojito analcolico e un barattolino di nutella avviato, anche se non sappiamo da chi; lo straniero la guarda intensamente, ringraziandola con un lieve bacio sulla guancia: Nist sviene senza pietà. Lui, allarmato, manda Stand a prendere della vodka economica alla pesca, e adagia il corpo dell’altra sul letto; poi le si siede accanto e le prende la mano:
- Dea, che cosa ti ho fatto? Volevo solo esprimere quanto apprezzabile fosse stato il tuo gesto non richiesto o forse solo derivato da una erronea interpretazione, come forse solo tua sorella sarebbe stata in grado di fraintendere. Ma vedo che riprendi piano conoscenza, gioia! Da anni cammino senza trovare riposo o fissa dimora, da sempre cerco di spiegare il motivo per cui sembro destinato a perdere tutto ciò che ogni volta ottengo, ma finora era stata poca cosa dover cambiare continuamente luoghi e frequentazioni, prima di conoscerti la perdita non mi era mai sembrata tale, solo una costante mutazione. Ma adesso ne capisco la portata, e mai vorrei doverti lasciare - sincere e piene di tristezza erano le parole.
- Tralasciando il fatto che ero svenuta mentre parlavi e tutt’ora non mi sento in grado di articolare ragionamenti coerenti, mi chiedo perché tu debba abbandonarmi. Anch’io fino ad oggi non conoscevo che il disprezzo per me e per la coinquilina che adesso non vedo, nonostante nell’aria ci sia uno sgradevole odore di Pruno Persico etilico. Prima di vederti ogni cosa affogava nell’incessante grigio monocromatico, ma ora quasi distinguo il bianco dal nero, e tu da entrambi e meglio di qualsiasi altra cosa vedo, e sento come se al mondo non esistesse più l’eterosoma da ma tanto odiato. Cos’è che riesce a sconfiggere persino ciò che la natura mi ha marchiato addosso? Non saprei definirlo articolando parole con la mia bocca, ma se premessi le tue labbra sulle mie forse riuscirei a esprimermi meglio - e detto questo si baciano, primo bacio per lei e ultimo per lui, unico per entrambi.
Torna Stand, ma i due sono sempre attaccati, e sembra non vogliano o possano separarsi; la giovane versa la bevanda tonificante sulla testa di lui, sperando che segua la convergenza dei tratti somatici che sembra vogliano entrare dentro Nist. Lui non capisce, è ghiacciata, si stacca distratto e solo dopo un attimo si rende conto che mai più gli sarà concesso anche solo emulare il gesto; come Orfeo maledice la svista fatale che gli allontana tutto ciò per cui fino a quel momento era valsa la pena vivere. Le lacrime amare mischiandosi al liquore ne compensano la stucchevole dolcezza, e scappa senza salutare, senza riprendere il soprabito fugge veloce sotto la pioggia, che ancora una volta gli fa spazio, notando inoltre che si è già sciacquato abbastanza.
- Ma perché l’hai fatto? - chiede Nist, impallidita.
- Fatto cosa? -

Per quanto corra Don Aban non arriverà mai.