martedì 26 agosto 2008

[S]COMMESSA

Reparto dei pelati. Trovo molto razzista essere discriminati per aver fatto una scelta estetica funzionale, ma è veramente disumano pensare che oltretutto ci obbligano a mangiare solo pomodori; semplicemente ridicolo. Prendo una scatola di polpa e mi guardo in giro, attento a gesti di conferma o di diniego legati alla mia autonoma decisione, ma nessuno risponde, nessuno sembra voler creare parallelismi o contrasti con questa scelta, tutti troppo presi ad acquistare cibi surgelati precotti o addirittura predigeriti, per i più pigri. In realtà sto cercando tra la gente qualcuno che pur non somigliandomi condivide ancora qualcosa con me, e sono anche in questi momenti di quotidiana banalità che si evincono certe mancanze; scuoto il capo, ripeto che tutto andrà bene, mi mento ancora un po’ e poi vado verso i sottoli. Desidero perdermi fino a sbattere contro il futuro prossimo, sperando che sia carina, passionale, riflessiva ma innanzitutto concreta, reale, fatta della stessa materia con cui viene plasmata solitamente l’umanità. Niente da fare, però ho trovato il tonno in offerta, ne prenderò due scatole, non sia mai che anche il tonno venga a mancare improvvisamente. Continuo a dimenarmi tra gli scaffali, la luce al neon offre al pubblico un colorito radioattivo piuttosto interessante, tanto che mi metto a seguire la donna dei panieri di plastica, asiatica verde coop. Ritorno inconsciamente al banco della verdura, c’è una signora che sta tossendo sul cesto delle carote; mi metto in fila dietro di lei e quando se ne va, nonostante detesti la famiglia delle umbelliferae, prendo tutte quelle più in superficie, non sia mai che lascio sfuggire un’occasione del genere. Poi la bilancia prezzatrice, la mia preferita, con tutte le figurine sintetiche che premute innescano quel rassicurante automatismo adibito all’emissione dei un etichetta rivelatrice di quanto pagherai; la mia dice: atroci contorcimenti vegetali nel secondo girone del settimo cerchio per l’incapacità di controllo di pensieri autolesionisti, al chilo chiaramente. Com’è diventata cara la verdura al giorno d’oggi. Sono di nuovo immobile e inosservato tra il brusio sacro della lettura della lista, il confronto dei prezzi dei litchis, la critica delle ammaccature sulle mele, l’attenta analisi della provenienza dei frutti fuori stagione, l’interpretazione delle striature sui cocomeri e l’onnipresente tirare su col naso vicino ai poponi. Mentre osservo un ragazzo mettersi a piangere davanti ai peperoni rossi viene costruita intorno una muraglia di carrelli che mi imprigiona vicino alle melanzane, a un passo dalle insalate. L’asiatica [commessa, non insalata] nota la mia difficoltà claustrofobica, accoppa un’anziana con un cetriolo e mi viene in soccorso; la ringrazio e continuo il cammino. I generi alimentari che desidero acquistare sono pochi e il viaggio è quasi al termine; mi bastano tre birre per dimenticare il succo tropicale, poi un salto davanti al reparto parafarmaceutico per osservare quello di cui non ho bisogno, poi le casse. Bisogna essere molto cauti nella scelta, osservare bene quelli che ci stanno avanti e ipotizzare coloro che potremmo avere dietro, fare una stima delle cassiere e delle condizioni dei nastri trasportatori, poi fermarsi e dire ‘va bene qui, tanto non ho nulla da fare’. Davanti a me l’ennesimo padre di famiglia perduto, mandato a comprare cose di cui non conosceva l’esistenza, prima di avventurarsi in questo misterioso dungeon. Ha le pupille dilatate e sudando copiosamente osserva gli ovini kinder, pensando a quanto desideri ardentemente una tartallegra che gli faccia da guida spirituale; non viene esaudito e spende poco più di cinquanta euro in cibo sintetico.
È il mio turno: la cassiera è over 30, mora, di carnagione scura, non bella, ma forse non è possibile definirla esteticamente a causa dell’espressione perduta, una disperata silenziosa incrinatura degli occhi che chiedono aiuto; le sorrido cercando di essere sincero, vorrei essere una presenza benevola nel tentativo di non peggiorare la vita a una persona che vede passare troppe persone, troppe abitudini alimentari ogni giorno. Lo sguardo che restituisce al mio sorriso le rende buffo il naso un po’ troppo grosso, poi mi accorgo che il naso è buffo e un po’ troppo grosso comunque, e che i suoi occhi non mi hanno mai visto perché passati attraverso e oltre ancora la signora che ama l’olio di girasole dietro di me, al di là degli scaffali verso un possibile punto di fuga. Il nastro si muove a scatti, passa la prima bottiglia e suona il telefono, uno strano citofono messo in orizzontale da cui, una volta alzato, non esce più suono; lei non sa cosa significhi, è tesa, la magrezza accentua i tendini delle mani tirate nel gesto infinito di dover prendere oggetti e passarli veloci, ascoltando l’elettronico BIP! ripetersi con un’aritmia lancinante. Le passano tra le mani le zucchine e le carote con bacilli, prima che qualcosa smetta di funzionare per alcuni secondi: il codice a barre sui pomodori non produce alcun suono. Basta poco per tenderla ancora, le unghie le si conficcano nella buccia dei solanum lycopersicum mentre scuote con troppa violenza il piccolo tagliando di carta appiccicosa incollato sulla plastica fragile della busta, se qualcosa non vi torna è perché ho comprato sia i pomodori interi che la polpa di pomodoro che i pomodori secchi sottolio, va bene? La macchina torna a funzionare ma la cassiera non può più nascondere quello che si è intravisto per un momento oltre le maniche della camicia: una lunga, bianca, obliqua cicatrice che le attraversa il polso destro.
Cos’è che non va, cassiera sconosciuta? Questo lavoro non può andare bene a nessuno, non per sempre, ma quella cicatrice sembra vecchia anche se male assorbita e ancora peggio occultata; ma a chi vuoi che importi, qua in mezzo, chi è che ha tempo da perdere a guardare i polsi di una cassiera triste? Lo sfregio non è esteso, ma sembra esser stato molto profondo, come a volte si è profondi anche se si finisce a lavorare alla coop, per potersi permettere la comodità di fare la spesa quando finisce il turno. A volte è difficile trovare l’ispirazione necessaria a vivere, necessaria come fare la spesa, e si finisce per cercare di finire, di finirci; ci vuole poco, basta unire ai soliti acquisti un pacco di lamette da barba, di quelle un po’ vintage per mariti più vecchi di noi, che sono scappati dietro alla donna delle pulizie appena immigrata. Basta aprire la scatola aprire noi stessi e aspettare che smetta di pulsare; e pensare che non posso permettermi di parlare per stereotipi di un gesto così intenso, come a volte si è in tensione anche se si finisce. A lavorare alla coop. Ma forse, cassiera commessa, il tuo era un gioco, una roulette russa in cui non mancano pallottole ma motivi per vivere, e si perde al contrario, se non se ne trova neanche uno. Ma tu devi aver vinto, o non saresti qua a far passare trecento grammi di pane oltre il sensore dell’archiviazione dei prezzi. Quello che ho visto mi mette a disagio, mi fa male una spalla mentre dici qualcosa riguardo alla mancanza del resto, e vorrei dirti che neanche io conosco il resto, tutte le esperienze che rimangono da vivere, ma che in fondo ho fiducia. No, a te mancano i centesiminimi. Annuisco e lascio due eurocent in omaggio alla coop [e questo alla faccia di chi pensa che io sia tirchio]. Lento metto la spesa in una busta logora che ho portato da casa, le birre nello zaino, e intanto ti guardo ancora: scrivi con gesti rapidi su un pezzetto di carta, non credo sia una lettera d’addio, più probabile un appunto per ricordarti il resto e continuare a lavorare, nonostante adesso possa sentirti da schifo, senza centesimi, illuminata dal neon, a doverti relazionare con estranei disinteressati. Non fai più caso a me, chiedi qualche secondo alla donna con l’olio di girasole. Anche questa storia è finita, devo ripartire
Mentre me ne vado e sono già girato sorridi meno tesa, e pensi che quando rifarai la pizza per i tuoi bambini e per la persona che ti ama dovrai stare più attenta, o comunque comprare una presina che copra le braccia un po’ più della tua, per quando estrai le teglie bollenti.

Di solito guardiamo il mondo in maniera sincronica al nostro punto o momento d’osservazione.

sabato 23 agosto 2008

FRAGMENTS, COME QUELLI DELLE ELEMENTARI

Ubriaco infetto prima delle cinque del mattino, in attesa di un’alba che sia vera transizione da uno stato all’altro, non definita da opposti ma dall’attività che porta scritta con se. Ho parlato con Dio, mi sono accorto di avergli chiesto tante cose senza mai chiedergli scusa, scusa perché vortico senza fermarmi e a volte non capisco, perché sono in guerra, quel conflitto tutto personale che mi vede barricato nei miei pensieri alienati. Guerra, oggi, ieri, sempre, sono morti cinquanta bambini in medio oriente, cinquanta individui a cui è stata revocata la licenza di crescere abbastanza per innamorarsi, per perdere anche, per provare ancora e fallire chissà quante altre volte, che cosa può fregartene quando al posto mio sono morte decine di persone che non avevano nessuna intenzione di frenare il proprio cammino evolutivo; e solo un pezzente occidentale può piangersi addosso, essere così patetico da dimenticarsi sempre che almeno la possibilità ce l’abbiamo ancora, spesso più del dovuto, più di quanto possiamo immaginare. Ma a Dio l’ho detto, questa storia dell’estate 2008 non va affatto; è arrossito, mi ha guardato scuotendo il capo, dicendomi parole che non saprei come tradurre, ma questo è il senso: problemi all’ufficio brevetti, questa estate non ha superato i test diagnostici ma l’abbiamo dovuta immettere comunque, eravamo già in ritardo. Vedi che allora qualcosa di sbagliato c’è, perché questa estate stiamo perdendo, noi stessi e gli altri, perdiamo la fiducia delle persone a cui diamo fiducia, ci facciamo a pezzi da soli, lentamente, ma l’estate non ha pietà e ci rinfaccia ogni cosa, lei, con il suo calore di cicale addormentate ci ricorda che l’eternità non ci spetta, non finchè è l’infinita mutazione a travolgerci mentre noi nuotiamo controcorrente, divani calducci ci riposiamo aspettando il crollo, la catastrofe, inevitabile come i Baustelle. Ma come si fa a inquisire la volontà, a portare al banco dell’accusa l’emotività e ogni paranoia formulata dal generatore automatico di incubi, è vero, ho di nuovo tirato teso temo tragici tempi avvenire se non riesco a liberarmi di quella pulsione, ma come si fa se è proprio Eros a contrapporsi tenendo per mano Thanatos. No, mi dispiace, la via ascetica la percorrerà chi la desidera, io vivo per appassionarmi, per essere portato via; sarà una tempesta continua? Meglio che affogare in un bicchiere d’acqua. Sapere cosa perdiamo, sapere cosa abbiamo; a me è rimasto l’affetto profondo di molte persone, la capacità di improvvisarmi senza sapere niente, a me è rimasto ogni sorriso, ogni goccia di pioggia che deve cadere ancora. E le illusioni: come si fa a vivere senza? Ma la gente pensa davvero che il desiderio, l’illusione e l’utopia siano così distanti tra loro? Sono parole che indicano tensione, e a sua volta tensione è una parola che sto logorando da quanto mi piace, così piena di prospettive, come me che a volte mi dimentico di averne e proprio in quel momento mi spezzo. Ma non buttatemi via, una cosa rotta non è per forza inutile, deve solo aggiustarsi ed essere più bella di prima, perché esiste di nuovo, più fragile. Con Dio ho parlato anche della fragilità, e mi ha detto che non è molto felice: lui ci ha donato la fragilità per affrontarla, mentre sembra che vogliamo sempre scappare per paura di romperci, a volte anche solo di sbilanciarci, di guardare oltre. Abbiamo paura di affrontare i problemi, e ci frantumiamo subito, come se nel guardare fosse incluso il moto gravitazionale verso lo schianto finale. Dio che hai donato il mondo per affliggerlo con la mia ubriachezza molesta nei confronti di Word97, abbracciami, perché hai messo in noi desideri che non tengono conto di niente, che si confondono tra loro, e adesso non mi concedi di ricordare il vento che mi accarezza la testa pelata, le stelle che mi ammiccano quando non c’è luna, lo sfregarsi sensuale delle onde di placenta nera, il sudore che mi si conficca nella pelle mentre sempre più veloce ingoio insetti volanti e sputo urla di Verdena, il bacio freddo del mare notturno intriso di notte. In ogni chilometro che faccio, dietro ogni chilo che perdo, dopo essere stato incollato all’asfalto sono più veloce dei ricordi, e corro a volte senza fuggire, a volte è già abbastanza.
Chi mi parla del tempo che passa solo a volte, chi mi parla dei sogni e della realtà in eterno contrasto, chi mi parla di lei o di te che leggi, chi mi parla di me, chi mi parla senza dirmi niente e chi non mi parla affatto [e ti prego parlami allora], parliamone. Ma agiamo, io con voi, e soprattutto: Grazie.
Anche al delirio, che a volte troppo male non mi vuole.

mercoledì 20 agosto 2008

BURATTiNI

[da leggersi velocemente con canzoni folcloristiche partenopee in sottofondo]

“Che fatica! Stasera il pubblico faceva schifo, sembrava che per farli applaudire dovessi strappargli le mani e batterle insieme da solo; per fortuna c’erano i bambini, che urlano tanto visto che con le zampette fanno meno rumore. Si, per fortuna. E poi Yorick, incapace, per poco durante la scena fondamentale non mi trovava Giuseppina; certo anche quella è proprio strana: che non gliel’ho detto che Pulcinella vuole solo i suoi baci e battere le sue manine legnose, che ai sentimenti non ci pensa? Vuole recitare commedie, creare burle sempre nuove con le quali deridere amici e nemici; e io che gli do voce e lo faccio parlare, che cerchi di cavarsela da solo ogni tanto. Però è stato bravo, mi ha aiutato. È lui che ha detto a Chiara di salire sul palco, Chiara, così piccola e docile, che mi guardava agitare i burattini e sorrideva; quanti anni aveva? Dieci anni, una decade che le ha fatto solo del bene, si leggeva nei suoi occhi vispi che sarebbe diventata importante. Però dopo un po’ si è scocciata, e il verme, suo padre, è venuto subito a prenderla in collo e consolarla, portarla via. Ah, proprio prima che Giuseppina si confessasse di nuovo e ricevesse l’ennesima batosta da quel malandrino, quel ciocco sbilenco e maleducato. Ma cos’è questo rumore di lacrime affrante? Oh NO! La strega, piange di nuovo; lei non ce la fa proprio a dichiararsi all’Angelo, e sai che ha ragione, quant’è brutta, però mica può disperarsi così ogni volta che esce di scena. Andiamo a consolarla prima che cerchi di nuovo di scucirsi.
STREGA! Come te la passi? Non bene lo vedo, ma te l’ho detto che l’Angelo non fa per te: oggi siete stati bravissimi, tu non volevi dargliela vinta mai e lui si struggeva e ti donava sempre di più pur di sapere dov’era finito il suo protetto, ma tu niente, irremovibile come una lapide! Perché allora quando finisce lo spettacolo i ruoli devono ribaltarsi così: tu a struggerti, e lui che se ne vaga candido e indifferente, dispensando dolci, piccole carezze. Si, eravamo assieme ieri sera, ma questi non sono affari tuoi, non facevamo niente che possa interessarti. Dai, non fare l’offesa, la tua collaborazione mi è fondamentale, non si trovano mica in giro burattini come te; però devo guardarti gli occhi, non si accendono più come un tempo. Adesso riposati che domani dobbiamo andarcene, ho paura che la mia presenza non sarà poi tanto gradita.
ANGELO! Vecchio mio, anche stasera ci tocca fare le ore piccole, ma che vuoi fare quando si hanno delle necessità la lancetta delle ore sembra sciogliersi come in un quadro di Dalitte? Ma cosa dici, esiste questo pittore, è francese; ma che parlo a fare con te che l’unica cosa che sai fare è muovere le mani dolcemente su vecchi e, bambini. Hai preso tutto l’occorrente? Andiamo. Sai, la strega impazzisce davvero per te, sta diventando ancora più brutta e piange talmente tanto che uno di questi giorni gli salteranno le lampadine negli occhi, mannaggia, e tutto perché sei un malandrino e usi la tua arte per piegare gli animi, per sottometterli alla tua volontà perversa. Sai a volte penso che metti il tuo malizioso zampino anche su di me, ma poi mi ricordo dei lividi, gli occhi gonfi di lacrime e sangue, schegge di denti sul pavimento sudicio, e ti ringrazio, ma non ti devo nulla che non fosse già nel mio animo, o sotto al mio letto. Guarda, la corda si è sganciata di nuovo, è di nuovo sul pavimento, che noia. Non ti sembra che si muova? Ci sono strani rumori in giro, chissa dov’è… YORICK Che ci fai qua? Non volevi, cercavi Giuseppina, si lo so che la perdi spesso ma ti avevo detto che qua non dovevi venire, oh, non scappare, vieni; sai è un peccato, di assistenti non se ne trova molti in giro, chi è che ha voglia di lavorare in questo campo dopotutto? Ma certo anche te che potevi dormire in questo momento, e invece no, sei svegli e gironzoli. Guarda in che stato sei, così sporco e tutta la barba sfatta, è un peccato non raderti la barba a fondo non trovi? Ma io te l’avevo detto che, anche se non ti si vede mai sul palco e nessuno nemmeno lontanamente percepisce la tua presenza, misericordia devi essere presentabile! Che ne dici Angelo, sta meglio il nostro amico Yorick, ‘Yorick il curioso’ lo chiamerò d’ora in poi, per qualche minuto ancora. Allora, ti fanno male guance? Ma tu non sei bello con la barba, e anche tutti questi peli schifosi che hai sul corpo, no, NO, dobbiamo toglierli; Angelo, le forbici! Grazie, lo vedi com’è più bello adesso Yorick il curioso. Guarda spuntiamo da una parte, qui intorno al capezzolo che resta, e poi qua in profondità, nell’ombelico, e intorno al pube, DISGUSTO, tu non sei candido e liscio e mi fai rivoltare, ma ci penso io a renderti più carino, ecco così adesso viene davvero da chiedersi se sei un maschietto o una femminuccia, e a chi vuoi più bene Yorick il curioso, a chi? Al babbo o alla mamma? Sono morti dici, bene, non ho voglia che qualcuno pianga quando non sono presente, l’amaro degli occhietti strizzati, le urla stridule rotte dai singhiozzi senza fiato, quanta poesia prima del silenzio, prima che il mio corpo grasso si trascini via con l’Angelo ancora in mano, che applaude. Smettila di guardarmi così Yorick il curioso, so bene che non lo dirai a nessuno e che dopo stanotte non ci vedremo più, perché mi dici cose che già so, raccontami qualcosa, una favola con i draghi, di quelle che fanno paura e ti fanno stringere forte al narratore, che con gli occhi sgranati e la voce possente ti tiene in pugno e ti costringe a stare attento a quello che succede e poi BU! AhhaaH, che paura eh!? Ma non mi dai soddisfazione, sarà che sei così alto, troppo alto, ecco così inizia ad andare meglio, un paio di colpi sicuri ed ecco fatto, ti farebbero male i ginocchi adesso se dovessi muoverti per scappare, ma dove vuoi andare mai? Ti è piaciuto almeno quello che hai visto qua, no? Scuoti il capo perché ti ha fatto paura e volevi andar via, ho capito, non volevo spaventarti ma a volte è così, in fondo io ho Napoli nel cuore e solo questa camion che mi fa da casa, così poche stanze e nonostante questo sei riuscito a entrare in quella sbagliata. Adesso capisci cos’era quell’odore da nausea a volte, vero? Sai, se devi andartene in fretta dai sospetti non è sempre facile trovare della soda per risparmiare tempo durante il viaggio, a volte capita di portarseli dietro per settimane prima di avere un momento libero. Ecco prendi un gelato, lo vuoi il gelato? No, allora lo mangio io guarda, io e l’Angelo ce lo mangiamo tutto e a te niente, ingrato! Yorick il curioso e l’ingrato, Yorick il bambino impaurito, Yorick in lacrime che supplica e nonostante tutto sa che diverrà sempre più piccolo, sempre più sottile, ecco via anche queste braccione da orango, veniamo dalle scimmie o dagli angeli? Diglielo tu Angelo da dove veniamo, dove veniamo. Angeli, è questo che vogliamo attorno a noi, angeli sublimi che ci amino, perché c’è troppo poco amore al mondo. Che dici che questo non è amore, certo che è amore, o non ci coinvolgerebbe così tanto. No, non siamo mostri come pensi tu, siamo quelle creature speciali che nessuno amava, e adesso abbiamo una nostra idea dell’amore, e tu sei il prossimo che ameremo, non piangere, sentirai quanto amore abbiamo da offrire al mondo che non ci desiderava, io insieme all’Angelo, nella discarica, i lividi, gli occhi gonfi di lacrime e sangue, schegge di denti sul pavimento sudicio e noi con le lacrime a pulirci le ferite del corpo e del cuore, ma chi ci capisce è bravo, io ho smesso di provare, adesso voglio solo l’amore negato che non ho mai avuto. Sono malato, è vero, ma cerca di capire, in fondo è solo sopraffazione, che dico, amore. Angelo, diglielo, urlagli che noi amiamo URLA Angelo URLA URLAGLI CHE NON LO AMIAMO E CHE TUTTO QUESTO È SOLO UNO SCHIFO!
Bravo Angelo, batti le mani, adesso pulisci, io devo andare a riposarmi, domani c’è un’altra finzione da tirare avanti…

martedì 19 agosto 2008

venerdì 15 agosto 2008

una STORIA TRISTE

Non è facile raccontare la storia di due entità di sesso femminile, innanzitutto per la mia esuberante villosità e le conseguenti difficoltà respiratorie; poi per la mia impostazione psichica, in cui spesso ma non sempre penso che sia una retta il modo più veloce di congiungere due punti tra loro, non un ramo d’iperbole tendente all’infinito in caduta libera sull’asse sintagmatico tridimensionale; da non dimenticare poi l’estroversione del mio organo sessuale, l’odore di sudore dopo la bicicletta, la tendenza alle calvizie, i rapporti spesso forzatamente triviali con gli amici, l’incapacità di godere di una sbornia nel passare dallo stato di sobrietà al coma in meno di un sorso e mille altri ameni particolari che mi definiscono uomo con le sue limitazioni e agevolazioni, tipo poter orinare in piedi.
Le persone di cui parlo sono due sorelle dai caratteri forti e diversi tra loro, creature generate dallo stesso uovo inseminato che nel crescere mutano forma e definiscono le loro personalità. La più vecchia, definita così per aver trovato prima dell’altra l’uscita dalle viscere materne, è Miss Nist Ogy: questa odia se stessa, la sorella e tutte coloro si macchino del peccato di far parte di quel genere definito da una doppia X sul corredo cromosomico; non ha sviluppato questo sentimento per motivi apparenti, sembra sia inscritto in lei dalla nascita, e questo la fa soffrire senza requie. Sorella giovane di Nist è Miss Stand Under: questa non capisce la sorella, ne se stessa, ne qualunque altra cosa al mondo necessiti l’uso dell’ormai atrofizzato prosencefalo; la sua tarda incapacità ugualmente la rappresenta da sempre, e solo a stento è riuscita a imparare l’uso della lingua e dei principali indispensabili movimenti senza i quali, aimè, la storia non andrebbe avanti, così come la vita di lei, che durerà comunque solo poche pagine.
Le due condividono la dimora dei non più presenti genitori, da cui si sono spartite i cognomi: Apol Ogy la madre, che fino in punto di morte si scusò per la propria vita vanificata nell’aver generato persone tali, e Taker Under il padre, che seppellì la moglie e poi se stesso in un impeto di contiguità semantica.
È in un giorno di pioggia intriso di grigio che Nist ragiona così:
- Che schifo la condizione in cui ci troviamo! Guardami sorella e osservati in me riflessa, distogli l’attenzione da quegli specchi mendaci e dalle cianfrusaglie con cui illudi il tuo corpo: guarda come la nostra carne si disgrega lenta e inesorabile, osserva le valigie che porto sotto gli occhi, il rovesciato sorriso teso tra la pelle delle guance avvizzite, come i seni si accasciano flaccidi mentre il tempo ci consuma. Ho atteso invano in tutti questi anni che la bellezza mi distogliesse da pensieri funesti, mi aspettavo di poter sciogliere ogni preoccupazione ancorandomi a un valore effimero, ma pur sempre intriso di un potere devastante, una forza che difatti ha spezzato gli uomini più forti e furbi della storia, costringendoli alla più umile sudditanza, necessaria per ottenere ciò che più bramavano nelle giovani amanti. Ho pensato che ridurre in schiavitù psicologica un essere umano opposto semplicemente dalla sottile linea della sessualità mi avrebbe donato la pace, avrebbe indotto una metamorfosi irreversibile nelle mie masochistiche convinzioni. E invece abbiamo perso ormai quella giovanile bellezza che ci avvolgeva pochi minuti fa, e in modo sempre più disgustoso ci ridurremo - esagera sempre Nist.
- Ma cosa dici? - risponde con un sorriso leggero Stand, che non potendo chiedere mai aiuto al cervello nell’ascoltare la sorella, si perde spesso tra i cosmetici testati su animali e bambini poveri.
- Dico che siamo destinate ad avvizzire come le susine che diventano prugne - e la similitudine coglie in fallo Stand, che non può rifiutarsi di capire ed emette un lamento languido:
- Oh no! Questo vuol dire che mi crescerà il picciolo, diverrò violacea e cadrò spesso dagli alberi… - Nist è già sul punto di trafiggere Stand con il ferro da stiro, ma si trattiene inveendo contro la natura che la opprime e ne ferma i gesti con la naturale femminile gentilezza, e per distrarre i pensieri si affaccia alla finestra che da sulla strada: osserva il vuoto di gente a tratti interrotto dalla fuga di individui sconvolti dalla crescente umidità dell’aria e dal peso del proprio corpo spugnoso che aumenta di volume. Guarda, persa nei suoi pensieri zeppi di rancore nei confronti di un umanità che a stento la comprende, e per la via appare un uomo, passeggiando lentamente si lascia lambire dalla pioggia, che invece di inzupparlo lo rende ancora più leggero, facendolo scorrere tra i ciottoli del marciapiede. Le altre figure in strada sembrano, nelle loro corse, cercare quanto possono di avvicinarsi a lui per poi fuggire doppiamente veloci lontano da questa austera, affascinante personalità materializzate in un corpo invidiabile. Nist è come pietrificata, per un breve lasso di tempo nessun pensiero la sfiora, e quando un po’ si riprende è l’immagine ideale di lui che le intorpidisce le membra, la accarezza lisciandone la pelle, rimettendo in sesto i seni, facendo per la prima volta comparire un sorriso che non sia per cinismo, ma pura passione e trasporto, tensione umana che precede l’innamoramento.
- Lui deve avere proprio un bel picciolo - è Stand che parla, arrivata silenziosa vicino a Nist per contemplare questo desiderio che cammina loro innanzi.
- Invitiamolo a entrare, sarà tutto bagnato - osserva Stand, e Nist si distrae un attimo a pensare quale favilla si sia accesa nella sorella, che così velocemente riesce a unire una causa temporalesca al suo più probabile effetto idratante; per la prima volta si ritrova ad essere d’accordo con lei, nonostante possa intravedere nella svampita Stand qualcosa di analogo al suo sentimento. Ma non ritiene quello il momento migliore per indagare la qualità di vita all’interno della sorella e, preso il k-way di latex, escono.
L’uomo sta ancora camminando, con lo sguardo perso davanti a se procede facendo finta di non accorgersi delle due persone che gli stanno arrivando incontro; quando la mano di una delle due si posa sulla sua spalla è con un sorriso benevolo che si gira, senza fiatare, aspettando che siano loro a proferire parola. Nist è piuttosto imbarazzata, tutti i ragionamenti fatti fino a questo momento non la soccorrono per giustificare quel gesto apparentemente insensato, e Stand la soccorre, inconsapevolmente:
- Buon giorno signore, che splendida giornata oggi per stare in casa, non trova? - leggera, Stand parla con il candore di chi non ha mai dovuto fare sforzo alcuno nella vita.
- Meravigliosa come dite, se si ha dimora. Ma si da il caso che abbia lasciato la mia per sempre, e mi trovi quindi alla ricerca di un tetto - affabile, si direbbe quasi malizioso se non fosse di modi così gentili.
- Il nostro è molto in alto, ma se vuole abbiamo un soggiorno piuttosto confortevole, se per lei va bene -
- Un invito, quanta gentilezza. Ma vedo un’altra signorina al suo fianco, non so se sia d’accordo con la sua idea; le dico che mi farebbe enormemente piacere intrattenermi con voi, senza voler offendere o fermarmi più del dovuto - guarda Nist e lei si scioglie, sentendo un calore molto più divampante di quello che sprigiona naturalmente il corpo costretto in un impermeabile sintetico.
- Mmh… veramente… ehm… sarei un’orata della sua presenza - balbetta Nist dopo alcuni secondi di profonda riflessione.
- Da quello che posso capire una scelta è stata fatta, quindi perché restare ancora sotto le assillanti gocce? Signore, nonostante abbia capito dove abitate lascio volentieri che mi facciate strada verso la vostra dimora, non indugiamo oltre! - e nel dire questo appoggia le sue mani su una spalla a entrambe, assolutamente ignare di quello che lui possa aver detto, una troppo presa dal suo moto interiore, l’altra perché dotata dalla natura.
Arrivati a casa le sorelle si tolgono le giacchette bagnate e prendono il soprabito di lui, assolutamente asciutto. Osservano prima l’indumento, poi lui, poi tra loro e poi di nuovo lui, che le guarda entrambe divaricando leggermente gli occhi e sorridendo.
- Si direbbe che lei è un tipo di indole allegra e asciutta - commenta Stand.
- Quanta sagacia mia cara, il suo acuto colpo d’occhio fa presumere che lei sia iscritta a una tra le più accreditate Università di questa città ignota ai lettori -
- La ringrazio, ma sono fiera di poter ammettere che tutto quello che sono lo devo alla Brassica Oleracea che mi ha generato - e nel dire questo ringrazia wikipedia con un delicato gesto della mano.
- Sono impressionato! Qua da voi poi è tutto molto bello, arredato con il fine gusto che solo due donne, una delle quali molto silenziosa, possono avere. Mi dica signora taciturna, posso sapere qual è il nome suo e della vostra amabile compagna? - e nel sentir pronunciare queste parole Nist sembra voglia vomitare, ma ingoia il principio del rigurgito e, con alito pesante, risponde:
- Siamo le due Miss chiamate Nist Ogy e Stand Under. Il primo è l’epiteto che mi appartiene, col secondo potete appellarvi a mia sorella, unita a me solo dalla discendenza e nient’altro. Volete sedarvi e dirci il vostro nome? - ancora un po’ sobbalza, ma sembra che abbia ripreso l’uso della parola.
- Mi piacerebbe a dire il vero fare un giro per la vostra dimora, accompagnato da entrambe, s’intende. Desidero vedere le stanze che vi accolgono, e capire se rendono giustizia alla vostra gentilezza -
Stand lo prende a braccetto e si avvia senza aggiungere altro, Nist per un po’ è scossa da tremiti, schiuma leggermente dall’intersezione sinistra tra le sue labbra, poi, dopo un leggero tocco di epilessia che le da lustro agli occhi, li segue. Dapprima lo portano al bagno, dove educatamente chiedono se desideri rinfrescarsi o adempiere a qualsivoglia tipo di dovere fisiologico, e rimangono fisse ad aspettare sulla porta; lui ringraziando declina l’invito. Poi è la volta della cucina, capolavoro dell’arte cuochiaia; in verità le due ne sfruttano ben poco le risorse, essendo abituate a una dieta composta da aggregati minerali spontanei e teflon. Nonostante questo le dispense sono piene, e le sorelle offrono all’ospite tutto ciò che contengono. Le dispense, non le sorelle, s’intende; egli rifiuta ancora, e le incita a proseguire. Passano allora al ripostiglio, regno dell’ordine assoluto: non c’è arnese fuori posto, nessuna chiave inglese manca dal raccoglitore, non un cacciavite spuntato, un martello abbandonato da una parte, una scopa sfilacciata; l’uomo si complimenta con entrambe per non essere mai state costrette a usare quegli oggetti, sui quali altrimenti apparirebbero inequivocabili i segni dell’usura. Loro ringraziano emettendo lo stridire dell’Athene Noctua, poi proseguono arrivando in salotto, dove comodi divani attendono solo che qualcuno vi si posi sopra stremato, e un grammofono emette il fruscio di una testina che sfrega su un vinile vuoto; Stand indica all’uomo un giaciglio di cuscini, su cui può riposarsi se vuole, ma tutt’altro che stanco lui desidera andare avanti, svelare i luoghi remoti in cui si sono formate le due sorelle. È così che passano davanti alla camera da letto dei genitori, in cui riposano immote urne cinerarie che mai hanno visto polveri umane; e poi la gabbia del canarino e il tostapane, la cuccia di un cane che non c’è, il ristoro balneare per tartarughe esiliate dal Polo Sud, la vasca dove molti anni prima è stata affogata una coppia di pesci rossi, si sa in queste vecchie case c’è sempre una storia macabra che attende di essere raccontata. Finalmente arrivano nel fulcro pulsante della casa, la camera da letto di Nist e Stand, dalla quale l’ospite inaspettato è stato rapito con gli occhi per la prima volta; entrano e lui subito si distende su un letto, concedendosi un lieve riposo dove solitamente si adempiono gli obblighi nei confronti di Morfeo; no, non farsi di eroina, sognare.
- Mie care, qua è tutto così affascinante e pieno di vita che sarebbe per me una gioia allietarmi ancora a lungo in vostra presenza, ma un crampo all’esofago mi assale; non è che una di voi potrebbe gentilmente portarmi dell’acqua speziata leggermente con radici e bacche di Giusquiamo nero? So che in queste zone se ne trova in abbondanza - e adesso al lettore piacerebbe ancora di più sapere dove ci troviamo.
- Certo - rantola a malapena Nist, che esce contorcendosi.
Stand e l’ospite rimangono immobili a guardarla uscire, e mentre lui pensa quanto aggraziati siano gli spasmi della donna, Stand si denuda.
- Pofferbacco! Quanta bellezza e quanta fortuna nell’ammirare un tale spettacolo, le doti che le sono state concesse vanno ben oltre il suo intelletto; ma la prego, non mi sento degno di una tale visione -
- Perché cosa vede? - chiede Stand aprendo le braccia.
- Signorina, lei è piuttosto nuda, direi che ad eccezione dell’epidermide nient’altro la copre; ma, la prego, non si tolga pure quella -
- Oh! Lei ha proprio ragione, mi perdoni; sa, ancora non ho imparato ad allacciarmi le stringhe delle ballerine, elemento portante del mio vestiario. Provvedo subito - e con aggraziata lentezza esegue il proposito.
- E io che credevo di dovermi finalmente abbandonare al piacere - sussurra lui tra se, sconsolato.
Nist ritorna poco dopo, portando un mojito analcolico e un barattolino di nutella avviato, anche se non sappiamo da chi; lo straniero la guarda intensamente, ringraziandola con un lieve bacio sulla guancia: Nist sviene senza pietà. Lui, allarmato, manda Stand a prendere della vodka economica alla pesca, e adagia il corpo dell’altra sul letto; poi le si siede accanto e le prende la mano:
- Dea, che cosa ti ho fatto? Volevo solo esprimere quanto apprezzabile fosse stato il tuo gesto non richiesto o forse solo derivato da una erronea interpretazione, come forse solo tua sorella sarebbe stata in grado di fraintendere. Ma vedo che riprendi piano conoscenza, gioia! Da anni cammino senza trovare riposo o fissa dimora, da sempre cerco di spiegare il motivo per cui sembro destinato a perdere tutto ciò che ogni volta ottengo, ma finora era stata poca cosa dover cambiare continuamente luoghi e frequentazioni, prima di conoscerti la perdita non mi era mai sembrata tale, solo una costante mutazione. Ma adesso ne capisco la portata, e mai vorrei doverti lasciare - sincere e piene di tristezza erano le parole.
- Tralasciando il fatto che ero svenuta mentre parlavi e tutt’ora non mi sento in grado di articolare ragionamenti coerenti, mi chiedo perché tu debba abbandonarmi. Anch’io fino ad oggi non conoscevo che il disprezzo per me e per la coinquilina che adesso non vedo, nonostante nell’aria ci sia uno sgradevole odore di Pruno Persico etilico. Prima di vederti ogni cosa affogava nell’incessante grigio monocromatico, ma ora quasi distinguo il bianco dal nero, e tu da entrambi e meglio di qualsiasi altra cosa vedo, e sento come se al mondo non esistesse più l’eterosoma da ma tanto odiato. Cos’è che riesce a sconfiggere persino ciò che la natura mi ha marchiato addosso? Non saprei definirlo articolando parole con la mia bocca, ma se premessi le tue labbra sulle mie forse riuscirei a esprimermi meglio - e detto questo si baciano, primo bacio per lei e ultimo per lui, unico per entrambi.
Torna Stand, ma i due sono sempre attaccati, e sembra non vogliano o possano separarsi; la giovane versa la bevanda tonificante sulla testa di lui, sperando che segua la convergenza dei tratti somatici che sembra vogliano entrare dentro Nist. Lui non capisce, è ghiacciata, si stacca distratto e solo dopo un attimo si rende conto che mai più gli sarà concesso anche solo emulare il gesto; come Orfeo maledice la svista fatale che gli allontana tutto ciò per cui fino a quel momento era valsa la pena vivere. Le lacrime amare mischiandosi al liquore ne compensano la stucchevole dolcezza, e scappa senza salutare, senza riprendere il soprabito fugge veloce sotto la pioggia, che ancora una volta gli fa spazio, notando inoltre che si è già sciacquato abbastanza.
- Ma perché l’hai fatto? - chiede Nist, impallidita.
- Fatto cosa? -

Per quanto corra Don Aban non arriverà mai.

venerdì 1 agosto 2008

il TRONO

Queste foto sono tratte dal set di Millolab [www.myspace.com/millolab] "la Rinascita"
Queste foto sono tratte dalla brutta esperienza di un Islandese il cui nome ricorda le Divinità
Queste foto sono tratte, come il dado



Ancora non so quale delle due si chiami "il TRONO", a voi l'ardua sentenza...

PS. il set è di Millo _ le foto sono mie